Finalità di questo Blog

Lo scopo di questo Blog "150° Unità d'Italia" è quello di raccogliere tutte le informazioni relative all'evento, e denunciare il tentativo di strumentalizzare la Storia ai fini anti italiani, così come denunciare l'impegno Istituzionale nel far passare questo importante traguardo il più inosservato possibile.

giovedì 27 agosto 2009

Seconda linea di Pensiero anti-italiana

Uso politico della Storia
Seconda Linea di pensiero anti-italiana
Il peccato di origine dell'Unità : il Risorgimento

Questa, è più recente, vede la sua nascita dopo la metà degli anni ’80. E’ un’offensiva che viene da lontano. E’ più “particolare”, sottile e subdola (di matrice secessionista e risponde a necessità esterne alla stessa Italia) indica in Casa Savoia e in come nacque l’Italia le cause dei suoi stessi mali.

Si usa cioè una parte ben circoscritta della storia (il Risorgimento) per dimostrare che l’Italia fatta male, resta un esperimento fallito, da abrogare quanto prima sull’esempio Cecoslovacco.

Abbiamo Ministri del Governo, attuale e passato (vedi Castelli o Calderoli) che hanno contestato l’operato di Garibaldi apertamente in Televisione.
Si vedono Deputati ed importanti Governatori regionali che denunciano il Risorgimento quale male assoluto d’Italia, vedi Galan in Veneto e Lombardo in Sicilia. Questi, ha stilato pure una classifica di personaggi negativi (a suo dire per la Sicilia stessa…) Garibaldi in testa, Cavour, Vittorio Emanuele II, ma molti altri anche siciliani meridionali pro-risorgimento, quali Giustino Fortunato Storico o Francesco Crispi presidente del Consiglio, Leonardo Sciascia o Luigi Pirandello scrittori.

Nel ricco nord est o al sud, c’è chi ha afferma addirittura (senza pericolo d’essere contraddetto da nessuno) che l’Italiano come lingua, è stata imposta in sostituzione delle altre locali - Altra falsità. Vi sono i documenti che “certificano” il contrario. Vedere documento sulle Origini della lingua italiana

Nel contempo ( ridicolo ma vero ) c’è chi ama denigrare Casa Savoia perché - dicono - non è una famiglia italiana e non sapevano parlare l’Italiano. Anche questo è falso e si può - avendo voglia - ristabilire la verità consultando documenti reperibili ovunque. Proponiamo un estratto su Emanuele Filiberto e Casa Savoia

Ormai la parola d’ordine istituzionale e mediatica sembra essere “sparare sul Risorgimento” come se si trattasse di una faccenda sporca, vergognosa, una guerra di conquista, anzi peggio, una guerra coloniale scatenata dal Piemonte Sabaudo, guidato da una dinastia di biechi conquistatori e rozzi militaristi !
Questa tesi ormai, è un bombardamento continuo. Riporto alcuni esempi… Vedi intervista a Luca Zingaretti recentissima, oppure le dichiarazioni di Ministro Sacconi del giugno di quest’anno. Anche il bell’articolo di Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera riporta il "messaggio" !

I ritornelli delle varie forze secessioniste e/o sfasciste insistono soprattutto sul fatto che il Piemonte piegò il risorgimento che si stava diffondendo in forma Federale, alla forma Unitaria ed accentratrice per non perdere l’egemonia…

Qui occorre essere chiari, le intenzioni sono una cosa, lo svolgersi degli eventi in corso d’opera sono un’altra, ed occorre contestualizzare gli avvenimenti all’epoca ed alle occasioni per avere un’idea chiara dell’argomento.
Chi ignora i documenti sulle intenzioni e punta il dito unicamente su una parte degli operati del Piemonte e di Casa Savoia, lo fa esclusivamente per tornaconto politico attuale.
Le origini dell’Unione Italiana e su come fare l'italia esulano da Casa Savoia, e comprendono tutte le possibilità, sia Federale che Unitaria.

Il Risorgimento, nonostante il Mazzini, prese avvio proprio come progetto Federalista - Neo Guelfo

Si giunse alla formula poi intrapresa perché l’unica possibile ed attuabile.
Si ricorda che Carlo Alberto ancora nel 1849 sperava in una Italia Unita nello sforzo comune di tutti i Principi. (quindi Federale), vedasi il Discorso della Corona del marzo 1849

L’ultimo tentativo, è ben testimoniato poi dalla lettera di Vittorio Emanuele II al cugino Borbone di Napoli (Francesco II) nel 1859

La mano tesa di Vittorio Emanuele II

Vittorio Emanuele II alla vigilia della seconda Guerra di Indipendenza

Eppure, ancora prima della Seconda Guerra d’Indipendenza, SM Vittorio Emanuele II di Savoia scrive al cugino Borbone per riproporre il progetto neoguelfo del Padre Carlo Alberto, egli scrive infatti

“(...)Gli italiani possono più esser governati come lo erano trent'anni or sono. Eglino hanno acquistato la sapienza e la forza sufficiente per difendersi. D'altra parte la pubblica opinione ha sancito il principio che ogni nazione ha il diritto incontestabile di governarsi come meglio crede (…) Siamo così giunti a un tempo in cui l'Italia può essere divisa in due Stati potenti, l'uno del settentrione, l'altro del Mezzogiorno, i quali adottandoi una stessa politica nazionale, sostengano la grande idea dei nostri tempi, l'indipendenza nazionale. Ma per mettere in atto questo concetto, è come io credo, necessario che V.M. abbandoni la via che ha fino ad ora tenuta. Se Ella ripudierà il mio consiglio verrà forse il tempo in cui sarò posto nella terribile alternativa o di mettere in pericolo gli interessi più urgenti della mia stessa Dinastia, o di essere il principale strumento della sua rovina”.

A questa lettera Casa Savoia ebbe in risposta un rifiuto, e la Storia del nostro paese prese la strada che conosciamo…

Carlo Alberto e le speranze Neo Guelfe

Carlo Alberto - Ancora spera in una Italia Neo Guelfa

Ancora il 1° Febbraio 1849 comunque, alla ripresa delle operazioni militari, Carlo Alberto di Savoia, ormai solo contro il nemico Austriaco, auspicava ancora al ricomponimento dell’originario programma neo-guelfo affermando nel Discorso della Corona in Parlamento : “Ci aiuteranno nel nobile arrigo l’affetto e la stima delle nazioni più colte ed illustri d’europa, e specialmente di quelle che ci sono congiunte coi vincoli comuni della nazionalità e della patria. A stringere viemmeglio questi nodi fraterni intesero le nostre industrie; e se gli ultimi eventi dell’Italia centrale hanno sospeso l’effetto delle nostre pratiche, portiamo fiducia che non siano per impedirlo lungamente”, e più oltre a conclusione del medesimo discorso affermava ancora : “La confederazione dei Principi e dei Popoli Italiani è uno dei voti più cari del nostro cuore e useremo ogni studio per mandarle prontamente ad effetto”

E’ chiaro quindi che il Regno di Sardegna ed i Savoia aderendo a questo principio, manifestavano la volontà di realizzare l’unità Italiana non contro gli Stati preesistenti, ma con il loro coinvolgimento e se possibile con la loro collaborazione.
Possiamo così affermare che a causa delle autorevoli defezioni a questo programma, si giunse alla sconfitta di Novara e con essa alla fine di tutte le speranze “italiane”. L’indipendenza fu quindi compiuta dal Piemonte e da casa Savoia, che rispondendo “Al grido di dolore” proveniente dall’Italia oppressa, disponevano delle armi, della diplomazia ma soprattutto perché avevano affrontato l’impegno storico con una preparazione culturale, un programma ed una concretezza assolutamente assenti tra i rivoluzionari, sognatori e velleitari e dall’atteggiamento di tutti i Principi intriso di rancori per poter raccogliere attorno alla loro bandiera forze sufficienti al conseguimento degli obiettivi fissati.

Il Risorgimento : Avvio del progetto Neo Guelfo

Il Risorgimento - Avvio del progetto Neo Guelfo

E veniamo proprio alla prima campagna militare, nella quale S.M. il Re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia Carignano, uno dei fautore del federalismo neo-guelfo, si lanciò generosamente nella prima guerra d’indipendenza, al richiamo dei moti e degli
innumerevoli subbugli contro lo straniero ….Il 23 marzo 1848, Re Carlo Alberto volle assegnare al suo esercito il tricolore italiano, quale segno evidente che non era intenzione conquistare, ma “costruire” a proprio rischio e pericolo, la realizzazione dell’agognata indipendenza, se possibile in collaborazione con gli altri Regni sovrani della penisola. Egli infatti afferma :
“E per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell’unione italiana, vogliamo che le nostre truppe, entrando sul territorio della Lombardia e della Venezia, portino lo scudo di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore italiana”.

I’8 maggio 1848 si inaugura il Parlamento Subalpino, riunito a Torino ed eletto il 27 aprile dello stesso anno, attraverso 204 collegi uninominali.
In tale occasione, si apre anche la tradizione del “Discorso della Corona”, da allora sempre seguita all’apertura delle nuove legislature. In quell’occasione, davvero solenne, Re Carlo Alberto, da poco partito per la prima guerra d’Indipendenza , delega alla sua lettura il Luogotenente del Regno, nominato in sua assenza.
S.A.R. il Principe Eugenio Emanuele di Savoia leggerà : “ In Italia le disgiunte parti, tendono ogni giorno ad avvicinarsi, e quindi vi è ferma speranza che un comune accordo leghi i popoli che la natura destinò a formare una sola Nazione…”
Volontari da tutta Italia
l'offerta da tutta Italia di combattenti (16.000 Napoletani con Guglielmo Pepe, Siciliani, 17.000 Pontifici di cui 7.000 regolari del Gen. Durando, toscani) non fu certo rifiutata, giacché l'esercito sardo era molto inferiore a quello austriaco.

Curiosità

Il 7 agosto 1848 dopo la sconfitta di Custoza si arruola volontario nel Corpo dei Bersaglieri il 21enne Michele Amatore, originariamente Sulaiman schiavo nero del Sudan. Nel corso degli anni di servizio, fu da tutti ricordato come il Capitano Moro. Insignito di medaglie e onorificenze si spense il 7 giugno 1883.

Conclusioni
Questa partecipazione congiunta, di diversi Stati, più quella dei numerosi volontari da ogni parte dell’Italia, e persino dalla Dalmazia consentì numerosi e brillanti successi. Questi successi però, fecero anche sorgere gelosie e preoccupazioni nei Principi, i quali ritirarono l’adesione all’iniziativa, passando di fatto dalla parte dello straniero, deludendo non poco le speranze e le illusioni dei rivoluzionari, ma anche di casa Savoia.

Quale Italia ?

Quale Italia ? (possibilità)

Tra i primi a teorizzare la soluzione federalista, fu il Conte Gian Francesco Galeoni di Napione Cocconato, il quale, nel 1791, diede alle stampe in Torino uno studio dal titolo “Idea di una confederazione delle Potenze d’Italia”.
Egli comunque considerava questa federazione come fase iniziale al processo di unificazione.

Nel 1814, Benedetto Borselli di Savona, proponeva un’”associazione di Stati Italiani, con una Dieta di Sovrani, e di repubbliche, presieduta dal Pontefice”.

Era il primo esempio di suggerimento al federalismo neo-guelfista.

Nel 1846, Vincenzo Gioberti, confermava questa teoria sull’opera “Il primato morale e civile degli Italiani”, dove rilevava che l’Italia aveva in se tutte le condizioni del suo risorgimento nazionale e politico, senza ricorrere agli aiuti ed alle imitazioni straniere, e che l’unità italiana poteva essere realizzata dal Papa, sotto forma di una confederazione dei vari Stati.

Un’evoluzione dell’idea di Gioberti, si riscontra nel saggio “La Costituzione secondo la giustizia sociale, con un’appendice sull’unità d’Italia” che scrisse Antonio Rosmini Serbati a Napoli nel 1848. Il filosofo cattolico sosteneva (profeticamente) che l’unità sarebbe stata aiutata dal progredire dei mezzi di comunicazione che avrebbero ridotto le distanze, e dai matrimoni misti, che avrebbero attenuato le pur evidenti differenze di carattere degli Italiani.

Alla scuola neo-guelfa, si contrappongono le concezioni federaliste laiche di Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo (Milano), che non ravvisavano la necessità di un organo comune tra le varie repubbliche (che sognavano), ma ritenevano fosse sufficiente il sentimento di necessità e mutuo soccorso di fronte al pericolo straniero !
Carlo Cattaneo in effetti nutriva una forte avversione nei confronti dei vicini Savoia, ed a lui è attribuito il disegno di una Lega di Stati Italiani, uniti sotto la presidenza dell’Imperatore d’Austria.
Questo concetto è il tema di diversi scritti apparsi su “Il politecnico”, un periodico di Milano del tempo.
Chi si opponeva radicalmente alle tesi Federaliste era Giuseppe Mazzini. Egli infatti ravvisava un nesso tra il frazionamento dell’Italia ed il suo servaggio…. Nell’individualismo degli Italiani stessi “che si nutre di tutte quelle gelosie, gare e vanità di città e di municipi, passioncelle abbiette e meschine che brulicano nella penisola come vermi nel cadavere di un generoso”.

In conclusione, le correnti di pensiero che agitarono la nostra penisola e prepararono il Risorgimento italiano, si polarizzarono intorno a due punti fondamentali : unità e federazione.

Il 1848 fu l’anno d’oro delle concezioni federaliste, ma segnò anche l’inizio del loro declino per la sconfessione del programma neo-guelfo da parte di chi avrebbe dovuto orchestrare (Pio IX) e per il fallimento del primo esperimento di azione federale (campagna militare del 1848-49)

Vandali danneggiano il Sacrario di san Martino

Vandali danneggiano Sacrario di San Martino della Battaglia

8 Giugno
Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera

La Francia considera sacra Verdun, l’America non permetterebbe mai che fosse profanato il nome di George Washington, l’Inghilterra tiene al villaggio belga di Waterloo al punto da aver chia­mato così la stazione dove arrivavano i treni da Parigi. Anche noi abbiamo una battaglia fondati­va. Un luogo, San Martino, e una data, 24 giugno 1859, un secolo e mezzo fa: prima l’Italia non c’era, e dopo sì. Ma non si può dire che noi italia­ni ne abbiamo rispetto.

Il luogo è bellissimo, una torre su un colle che guarda il Garda, e lungo la scala grandi affreschi che ricordano tutte le guerre d’indipendenza, e anche il conflitto ’15-‘18.

L’affresco racconta che fu re Vittorio Emanue­le a comandare le cariche, e la scritta a fianco che Maurizio ama Sonia (o almeno la amava il 2/3/89). Qui Garibaldi guida i Mille, e accanto Lu­ciano ha inciso la data delle nozze con Patrizia (25/10/2008). Lassù Cadorna e i bersaglieri apro­no la breccia di Porta Pia, e «la famiglia Sala gri­da: forza Inter!». Decine, centinaia, migliaia di scritte, graffiti, incisioni si sono accumulati da più di vent’anni nel sacrario che celebra San Mar­tino, dove Napolitano e Sarkozy verranno tra due settimane per il centocinquantesimo anni­versario della battaglia che vide italiani e france­si sconfiggere gli austriaci e dare a un popolo una patria.

Ma è divenuto il ricetta­colo d’ogni bizzarria di generazioni di visitatori. Scritte vagamente politiche: «Le guerre fanno tut­te schifo», «se Garibaldi se ne stava a casa sua era meglio per tutti», e ovviamente «Padania libe­ra » (più volte). Ma anche insulti, profferte ses­suali, disegni osceni, motti di spirito — «qui De­borah e Marco tentarono di fare un figlio ma fu­rono disturbati da un visitatore» —, citazioni An­ni ’80 di Bob Marley e recentissime di Jovanotti, una firma di Renato Zero si spera apocrifa, e una grande statua di re Vittorio Emanuele II con una ragnatela sulla spada, un’altra sull’orecchio de­stro, una terza lungo i calzoni… L’altoparlante che diffonde il Va pensiero e l’Inno di Mameli rende il quadro se possibile più surreale.

La colpa è di tutti, quindi di nessuno. Certo non dell’associazione «Solferino e San Martino» e del comune di Desenzano, che anzi hanno appe­na restaurato le lapidi del viale che porta all’ossa­rio, con le iscrizioni in cui le cariche sono ovvia­mente «impetuose» e le fanterie «eroiche» (qui si intravede «strenua artiglieria», qui «indomito valore»). Non dell’amministrazione provinciale e regionale che certo hanno cose più urgenti cui badare, così come il ministero della Difesa. Ma neppure le migliaia di grafomani probabilmente hanno creduto di profanare qualcosa di sacro, o almeno di importante. Devono aver pensato che in fondo lo fanno tutti, e che il loro nome non vale meno di quelli dei generali sabaudi o dei vo­lontari napoletani incisi nella pietra; loro, oltre­tutto, sono vivi.

Il Risorgimento non è di moda. Lo sono molto di più i briganti, i Borboni, il Papa Re. Vengo­no rivalutate le insorgenze, si cita spesso la Napo­li- Portici prima ferrovia della penisola (ometten­do di ricordare che serviva a portare i cortigiani da una reggia all’altra), si piange sugli zuavi pon­tifici. Degli 846 caduti di San Martino — cui van­no aggiunti i 375 morti nei giorni successivi per le ferite, i 3707 mutilati, i 774 prigionieri o disper­si — non sembra importare quasi a nessuno.

Peccato, perché è una storia affascinante, di quelle da raccontare ai bambini. Due imperatori in campo, di là Francesco Giuseppe, di qua Napo­leone III (molti visitatori sono francesi, che van­no ancora giustamente fieri della prova offerta dall’Armée, piene le città di vie dedicate a Solferi­no, a San Martino, a Mac Mahon). Un re popola­no, Vittorio Emanuele II, che alle esangui dame dell’aristocrazia europea preferisce la figlia di un tamburino. Brigate che portano nomi piemonte­si — la Casale, la Pinerolo, la Acqui, la Cuneo, la Savoia, la Aosta, oltre ai granatieri di Sardegna — ma rafforzate da volontari venuti da tutta Ita­lia. L’ossario custodisce resti di milanesi, veneti, trentini, toscani e anche giovani del Sud, che for­se non afferrarono tutte le parole che Vittorio Emanuele gridò in dialetto — «o gli prendiamo San Martino o ci fanno fare sanmartino» (san­martino in piemontese è il trasloco, dal giorno in cui scadevano i contratti dei mezzadri) —, ma che dovettero aver compreso benissimo quel che il re intendeva dire. Tra i volontari toscani c’era Collodi, l’inventore di Pinocchio. E tra i testimo­ni ci fu lo svizzero Henri Dunant, che — impres­sionato dai lamenti dei feriti lasciati senza soccor­so, qui e a Solferino — disse a se stesso che quel­la sarebbe stata l’ultima battaglia tanto crudele. Così il 24 giugno 1859 nasceva, con l’Italia, la Cro­ce Rossa.

Più che il Risorgimento, forse è l’idea di patria a essere ancora fuori moda, o comunque non del tutto rivalutata. Ciampi in particolare ha lavora­to molto sui simboli dell’unità nazionale: il trico­lore, l’inno di Mameli, il Vittoriano. Quel che con­tinua a sfuggirci è l’idea del bene comune, di una storia condivisa, di un valore che ci riguarda tut­ti e nello stesso tempo ci trascende. Perciò, per un governo che ha dichiarato guerra ai graffiti, i primi da cancellare sono quelli di San Martino.

Risorgimento : Storia da riscrivere

RISORGIMENTO : SACCONI (Ministro), STORIA DA RISCRIVERE

(ASCA) - Treviso, 18 mag - ''La storia del Risorgimento e' da riscrivere''. Lo ha detto il ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, alla presentazione del libro ''Dialogo su Vittorio Veneto'' del senatore Maurizio Castro, del Pdl, che invita la citta' della vittoria della prima guerra mondiale a ripensare la biografia risorgimentale. Fra 2 anni ricorre il 150* anniversario dell'Unita' d'Italia e nel 2018 il 100* della fine del primo conflitto mondiale a Vittorio Veneto.

''Il modello per il futuro del Paese e dell'Europa - ha detto Sacconi - non puo' essere quello della monarchia sabauda, modello che peraltro nessuno oggi rimpiange, ma della Serenissima Repubblica di Venezia''. Come dire, l'oligarchia da una parte, il popolo dall'altra; da una parte la burocrazia centralistica, dall'altra la sussidiarieta'. E se il Risorgimento - ha sottolineato ancora Sacconi - e' il risultato di alcune oligarchie, Vittorio Veneto dimostra, con la conclusione della prima guerra mondiale, che ''e' stato il popolo a pagare il prezzo piu' alto'' nella storia d'Italia.

Agenzia ASCA - 18-05-09


Due paroline sulla Serenissima Repubblica di Venezia !

Uno Stato forte e potente, retto però da un’oligarchia di poche e potenti famiglie che si accordavano tra loro nel “broglio”, un angolo della piazza San Marco per eleggere a turno e solo tra di loro la figura del Doge, senza che questa disturbasse gli interessi ed i guadagni delle stesse !

A questo aspira il Ministro Sacconi ?

Intervista a Luca Zingaretti

Intervista a Luca Zingaretti
"Rifarei Montalbano ma finora la Rai non m’ha chiamato"

Articolo di : di Michele Anselmi
venerdì 29 maggio 2009
Il Giornale.it

Roma - «Sono un fautore della lentezza. Permette di capire meglio le cose. Siamo bombardati da migliaia di notizie in tempo reale, ci sembra di sapere tutto, invece non approfondiamo nulla». Luca Zingaretti, classe 1961, romano de Roma ma siciliano «honoris causa», in realtà gira come una trottola. Ieri mattina è volato a Roma da Bologna, dove sta girando il nuovo film di Pupi Avati, per rientrarvi nel pomeriggio, giusto in tempo per una lettura nel quadro della rassegna «Regina pecunia». Stamattina sarà a Siena, dove si apre la quarta edizione di «Hai visto mai?», combattiva Festa del documentario «su temi sociali e di costume» che l’attore pilota dal 2006. Vorrebbe parlare solo del suo piccolo festival, nato attorno a una tavola imbandita e via via cresciuto nell’attenzione di stampa e tv, tanto da conquistarsi il sostegno del Segretariato sociale della Rai. Ma fa qualche eccezione.

(…)

Il cinema, però, continua a praticarlo assiduamente.
«Leggo tanti copioni, vaglio molte proposte. In generale, penso sia meglio fare buona tv popolare che cattivo cinema d’autore. D’altro canto, se una cosa mi piace non guardo al numero delle pose. Ho fatto una particina in Noi credevamo di Mario Martone, sono Francesco Crispi, parlamentare della sinistra sin dal 1861, prima repubblicano mazziniano, poi sostenitore della monarchia sabauda. Già, il Risorgimento. A scuola si studia poco e male. E pensare che i nostri guai partono tutti da lì».

(…)

L'Italiano e Casa Savoia

L’Italiano e Casa Savoia

Casa Savoia, fu la prima in Italia a considerare ufficialmente la lingua italiana, lingua di stato. Emanuele Filiberto Duca di Savoia nel 1562, trasferendo la capitale da Chambery a Torino, decretò che tutti i documenti di stato fossero da quel momento scritti in lingua italiana.

Tanto che il Torquato Tasso,scrisse di Emanuele Filiberto Duca di Savoia, in buon Italiano: "il primo e più valoroso e glorioso Principe d’Italia".
Tutti i sovrani Savoia da allora hanno sempre parlato Italiano oltre alle altre lingue di maggior uso in uso in Europa.

Per arrivare allo specifico delle solite calunnie... SM Vittorio Emanuele II Re di Sardegna prima e Primo Re d'Italia poi, parlava e scriveva in corretto Italiano, come era in grado di parlare e scrivere correttamente in Francese. Conosceva inoltre il Latino ed il Greco antico. Usava parlare con i suo Entourage in Dialetto Piemontese, questo si era sua caratteristica, ma lo faceva perché era persona pratica e bonaria.

Del resto non si capisce perché Francesco II Re di Napoli debba essere “onorato” perché parlava Napoletano…. Due pesi e due misure SEMPRE

A Corte, si usava parlare in Francese,

VERO !

…ma non era un vezzo di Casa Savoia, era una necessità pratica della corte stessa, che vedeva convivere tra loro parenti di diverse nazionalità, e numerosi plenipotenziari, ambasciatori e ministri stranieri.
La regina moglie di SM Carlo Alberto (Maria Teresa) e la moglie del Principe Vittorio Emanuele (Maria Adelaide) erano Austriache ad esempio.
Ciò che succedeva nelle corti di tutti gli stati d'Italia poi era normale anche all'estero. A San Pietroburgo a corte si parlava Francese, così come alla corte di Prussia e di tanti altri grandi paesi del tempo.
Va inoltre ricordato, che la lingua internazionale del tempo era il Francese, utilizzata anche dagli ambasciatori Inglesi, fino a poco prima dell'ultima guerra !

Lingua Italiana, i fondamenti

Lingua Italiana, i fondamenti

Va subito chiarito che la lingua italiana, non fu imposta, ma si elevò naturalmente tra il popolo, a cominciare dal medio Evo
In Italia non vi sono altre lingue. Il Piemontese ad esempio non è lingua, …prima dell’italiano la lingua “comune” d’Italia era il Latino, che del resto era lingua unica per mezza Europa

Che significato ha parlare di lingua Piemontese, quando la ricchezza della nostra cultura è data dalla estrema varietà dei mille dialetti di ogni città, paese, borgata e vallata ? A Biella si parla come a Torino, a Saluzzo come a Bra. Ad Ivrea come ad Alessandria ? NO, appunto perché non siamo in presenza di una lingua basata su terminologia e grammatica uniforme !

Sui muri in veneto, sono sempre più numerose le scritte “Voemo parlar veneto”, facendo finta di non sapere che la lingua Veneta non è mai esistita neppure durante la Serenissima Repubblica di Venezia, dove i giornali al tempo venivano stampati in Italiano, proprio per essere capiti da tutti, da una sponda all’altra dell’Adriatico, fino a Ragusa (Albania), come si scrivevano in Italiano anche, Documenti, atti notarili e di governo fin dall'inizio del XVI secolo

La Lingua Italiana NASCE IN VENETO

Fu infatti lo Zaratino (di ZARA) Gian Francesco Fortunio a fissare nel 1516 le "Regole della lingua italiana" in una grammatica, che tra la prima stampa ed il 1552 ebbe 14 edizioni !!!

Un'altra "grammatica" fu di Pietro Bombo (Veneto) intorno al 1550, e tra il 1530 ed il 1573, un Capodistriano, certo Girolamo Muzio, portò a compimento un'opera dal titolo illuminante "Battaglia in difesa dell'italica lingua"

A dire il vero, vi furono altri autori, che prima ancora tentarono in vari modi di fissare per iscritto la nostra meravigliosa lingua, come il Vicentino Gian Giorgio Trissino, che agli inizi del 1500 pubblicò alcune opere in italiano o per l'italiano...
"Arte Poetica", "Dubbi grammaticali" e "L'Italia liberata dai Goti"

Infine a coronamento, voglio ricordare l'opera prima di Gian Rinaldo Carli, anch'esso Capodistriano, che nel 1774, pubblicò un'opera enciclopedica esemplare, ...studio approfondito sulle "Origini della lingua Italiana" !

Questo non solo per chiarire in modo inequivocabile che la lingua italiana non fu imposta, ma che partì dal basso e da lontano affermandosi quale lingua appunto, perché utilizzata da tutti in Italia, ma anche per stroncare una volta per tutte le calunnie sulle bocca di molti...

Finiamola di dar spago, agli Iugoslavi, asserendo che le terre Giuliane, d'Istria e Dalmate non sono italiane, perché abitate a maggioranza da gente slava, quando buona parte della cultura ITALIANA viene da quelle terre o sono state fissate in quelle terre.

Biografia : Waldimaro Fiorentino - “Tra decentramento e federalismo”, Ed. Catinaccio - Bolzano

lunedì 24 agosto 2009

Prima linea di Pensiero anti-italiana

Uso politico della Storia
Prima linea di pensiero Anti Italia - generalista e sfascista


E’ una linea generalista e sfascista. Ha origine nel primissimo dopo guerra, è servita ad isolare, ed ad estromettere la classe dirigente ante guerra durante gli anni ’50 e ’60, ed è rimasta valida fino ai primi anni ’80 del secolo appena passato.

All’alba dell’era repubblicana infatti, la vecchia classe dirigente ante guerra, era ancora presente, fortemente attaccata ai valori della Patria e fondamentalmente onesta. Questa classe, ancora indispensabile al funzionamento stesso dello Stato, risultava comunque scomoda, e da sostituire il prima possibile, soprattutto al sud, dove la sua fedeltà a Casa Savoia non era stata messa in discussione dalla follia della repubblica Sociale Italiana o presa di mira dalla pulizia operata dalla Resistenza rossa !
Occorreva inoltre mettere al riparo la neonata repubblica dalla marea di ritorno della Monarchia data dagli oltre 10.700.000 elettori monarchici. Per emarginarli, (ricordiamo che erano il 50 % circa dell’intera popolazione) si ricorse a ridicolizzare il loro sentimento di amore verso la Patria, e quindi in battuta finale la Patria stessa.
In questo modo, queste persone apparvero dal quel momento fuori luogo, ormai de-modè, superate ed obsolete !
Fu così che, gli italiani e chi si sentiva fieramente tali, si sentirono “dipinti” quali straccioni emigranti in cerca di un tozzo di pane. Identificati in mafiosi, in corrotti, in provinciali (Chiassosi suonatori di mandolino, mangiatori di spaghetti ecc. ecc.)
I nostri soldati nella seconda guerra mondiale, che, a stragrande maggioranza erano rimasti fedeli al giuramento che li legava al Re (oltre 600.000 gli internati in Germania che non vollero arruolarsi nella RSI rischiando di non tornare a casa …Giovannino Guareschi era uno di loro) vengono da quel momento identificati quali traditori, imboscati, meschini e sempre in fuga.

Secondo questa linea di pensiero, pare che gli Italiani non abbiano mai vinto una battaglia da soli. (esempi numerosissimi nel quale si evince esattamente il contrario)… poi vi sono i luoghi comuni, le scarpe di cartone, gli aerei di tela ecc. ecc. (gran parte di questo ciarpame… è soltanto fantasia, oppure è perfettamente coerente con quanto succedeva in altri Paesi nello stesso periodo !!!)

In breve dell’Italia conosciuta in tutto il mondo come un Paese di Poeti, Scrittori, Scienziati e Condottieri siamo diventati il Paese del nulla, dell’arido, della conflittualità permanente. Il Paese insomma, dalle spigolose differenze che nessuna logica di buon senso poteva pensare di tenere unito.

Per alimentare subdolamente nelle nuove generazioni queste BUGIE, i libri di scuola dei nostri ragazzini, sono stati riempiti di “vuoti” temporali, si operano salti oscuri, si dedica più pagine ad illustrare la magnificenza della rivoluzione Francese che quelle dedicate al Risorgimento che portarono alla nostra Unità ed emancipazione.
Proviamo a chiedere fuori da un liceo o da un istituto tecnico cosa ricorda la data del 17 Marzo ! …mistero.
Il compenso ogni ragazzino con un briciolo di attenzione sa bene che il 4 luglio è la festa del ringraziamento negli Stati Uniti, e che il 30 ottobre, è la festa di Halloween !

Ad esempio, volendo parlare della rivoluzione francese, perché vengono del tutto omessi i moti anti-francesi ? Questi moti, sarebbero osannati in ogni altra parte del mondo, quale simbolo di compattezza sociale pur in presenza di confini interni tra le varie genti italiche. Nulla invece… su una guida del biellese, ci ho trovato addirittura scritto che la popolazione locale fu entusiasta della venuta Francese…
Nelle Langhe, si usa ancora ricordare un vecchio detto, che recitava : “Libertè, Egalitè Fraternitè, i francesi a cavallo e noi a piedi” (in dialetto piemontese si fa una rima calzante).
Visto che i proverbi, sono fonte di saggezza popolare, non avrei altro da aggiungere in proposito. Ci troviamo di fronte ad una mistificazione della storia, o nella migliore delle ipotesi di fronte all’occultamento di parte di essa.

Prima Guerra Mondiale ?
Della Prima guerra mondiale sappiamo tutto soltanto di Caporetto (in verità non sappiamo nulla nemmeno di questo glorioso capitolo…) Vedere "Invenzione del tradimento a Caporetto"

Nessuno ricorda mai il convegno di peschiera dell’8 novembre 1919. Non abbiamo notizia alcuna ad esempio del nostro peso sull’economia globale della guerra combattuta tra i due blocchi, non si parla mai delle promesse non mantenute dagli alleati dei patti di Londra. Sappiate, che il peso italiano avuto sulla vittoria totale delle potenze alleate, è reale e quantificabile, e fu decisivo ! Ma occorre che i nostri ragazzini lo sappiano, per sentirsi orgogliosi d’essere Italiani !

Più tardi, le nostre ambizioni coloniali vengono sorvolate con poche righe. E’ scomodo infatti parlare di quel periodo con particolari. Sarebbe inopportuno infatti scrivere quello che abbiamo fatto e costruito in africa in confronto al resto del mondo.
Alcuni esempi :
1889, l’Italia istituisce la “Società antischiavista”, ed è il primo paese al mondo ad abolire con legge dello Stato la schiavitù.
1919, Cirenaica e Tripolitania sono considerate Province italiane ed i suoi abitanti cittadini italiani a tutti gli effetti, i famosi Italiani della quarta sponda.
1921, si apre in Cirenaica il primo parlamento democraticamente eletto d’Africa, concedendo a quella grossa provincia italiana larga Autonomia legislativa ed amministrativa. Il presidente, e la maggioranza dei 69 deputati erano persone di razza, lingua e religione araba.

Queste sono cose, che riempirebbero d’orgoglio qualunque popolo al mondo noi italiani le abbiamo dimenticate …a forza !

Ultimamente però, venendo a mancare i testimoni di questa epopea, affiorano decine di “storici”, che asseriscono di brutalità, di sfruttamenti, deportazioni abusi ecc. ecc. Le falsità britanniche sui gas impiegati contro gli abissini in africa infatti, sono ormai una “verità” a cui nessuno sfugge. Uno su tutti… lo “storico” si fa per dire Del Boca !
Vedere "L'uso dei Gas in Abissinia"

Le Foibe restano un tabù, e i 2/3 dei libri scolastici NON LE RIPORTANO neppure. I testi che lo fanno sono molto superficiali e di parte, normalmente vengono dipinte come una rappresaglia verso coloro che essendo fascisti, operarono delle brutalità in quelle terre. Anche in questo caso esistono documenti che attestano la falsità di questo assioma. Fu pulizia etnica vera e propria, ma per conpiacere una certa parte politica, e per fare della scandalosa politica estera di buon vicinato, abbiamo preferito dimenticare la verità per 50 anni !
Vedere la verità sull’Isola di Arbe ad esempio.
Oppure la testimonianza di Gino Paoli che fa l’eco a Francesco de Gregori

E’ ormai luogo comune, indicare particolarità della nostra storia (es. guelfi e ghibellini, o la competizione delle varie repubbliche marinare) come se fossero dei difetti. La dimostrazione cioè di quelle manchevolezze che certificano le differenze tra di noi, perché risiediamo in luoghi diversi, ed abbiamo interessi e storie diverse.
Manchiamo del senso comune dell’italianità insomma …per natura.
Falso, nel modo più assoluto. Non vi era forse un popolo in Europa con un senso nazionale più profondo e antico del nostro, …che è dato appunto dalle nostre antiche e profonde radici Latine comuni !!!

Tanto per fare un esempio possiamo citare l’episodio della Disfida di Barletta, per renderci conto di quanto “l’Italianità” è stata presente in noi fin dal medio evo…

Ma citiamo ancora Napoleone a nostra difesa.
Ritenendo Napoleone Buonaparte un testimone più che valido della sua epoca, ci chiediamo perché tra le sue memorie d’esiliato dovesse scrivere “ L’Italia è una sola nazione. L’unità dei costumi, della lingua, della letteratura dovrà finalmente, in un avvenire più o meno prossimo, riunire i suoi abitanti sotto un sol governo “

Altro esempio eloquente ci viene da alcuni articoli di giornali molto recenti :
Senso di Italianità - Oriana Fallaci e Sergio Romano

Vorrei inoltre ricordare il senso di italianità dei nostri emigranti.
Questo è un esempio che dovrebbe di colpo far cadere ogni calunnia, ed ogni luogo comune al riguardo.
Quando si ebbe notizia che l’Italia nel 1915, era entrata in guerra, furono migliaia gli emigrati che tornarono per arruolarsi e combattere la prima guerra mondiale !

Il sentimento di Italianità

Il sentimento di Italianità

Sergio Romano

su Corriere della Sera del 4 febbraio 2002 a tal proposito scrisse : “Esiste un patriottismo che gli italiani non riescono a esprimere e che crea, per questa sua incapacità di uscire all’aperto, una specie di malessere nazionale. (…) le generazioni del dopoguerra sono state abituate a deridere i suoi simboli tradizionali (…) se qualcuno vuole la prova di questa patologia nazionale - un sentimento che non riesce a trovare né parole né simboli - dia un’occhiata alla bandiera sulla facciata dei palazzi pubblici (…) Non è una bandiera nazionale. E’ un drappo stinto, sporco, spesso stracciato. Lo hanno appeso a un’asta per obbedire a una disposizione ministeriale (...) nessuno si sognerebbe di salutare il “tricolore”, di ammainarlo al tramonto, di ripulirlo per le feste nazionali o di ripiegarlo religiosamente (…) Le sole bandiere che suscitano passione in Italia sono quelle delle contrade al Palio di Siena e delle squadre di calcio negli stadi (…) Ma “l’italianità” - una parola, ormai, pressoché impronunciabile – esiste (…)”

Il bravo Sergio Romano, dovendo dimostrare che l’Italianità è tuttavia presente nel popolo, non può evitare di lasciar cadere il “drappo stinto e sporco” (della repubblica) issato “dalle generazioni del dopoguerra” e ricordarsi di un’altra grande firma del giornalismo italiano,

Oriana Fallaci.
Questa Donna infatti in un suo articolo, che Sergio Romano dice essere stato “per molti lettori la scintilla di un corto circuito”, parla della Bandiera d’Italia scrivendo : “Io ho una bandiera bianca rossa e verde dell’Ottocento. Tutta piena di macchie, macchie di sangue, tutta rosa dai topi. E sebbene al centro vi sia lo Stemma Sabaudo (ma senza Cavour e senza Vittorio Emanuele II e senza Garibaldi che a quello Stemma si inchinò noi l’Unità d’Italia non l’avremmo fatta), me la tengo come l’oro. La custodisco come un gioiello” (Corriere della Sera del 29 settembre 2001).
Oriana Fallaci, che come Sergio Romano certo non può essere considerata persona di fede Monarchica (“sebbene al centro vi sia lo Stemma Sabaudo” ne è prova inconfutabile), non lesina critiche all’odierna repubblica, dichiarando nello stesso articolo : “Naturalmente la mia patria, la mia Italia, non è l’Italia d’oggi. L’Italia godereccia, furbetta, volgare (…) L’Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o a una diva di Hollywood venderebbero la figlia a un bordello di Beirut (…) L’Italia squallida, imbelle, senz’anima, dei partiti presuntuosi e incapaci che non sanno né vincere né perdere però sanno come incollare i grassi posteriori dei loro rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco (…) Non è nemmeno l’Italia dei giovani che avendo simili maestri affogano nell’ignoranza più scandalosa, nella superficialità più straziante, nel vuoto (...)”

Tirando le somme quindi, veniamo a capire che il senso di italianità esisteva prima della guerra. Oggi e frustrato dalla repubblica “volgare e vigliacca” dei “grossi posteriori dei suoi rappresentanti incollati alla poltrona” rappresentati dal tricolore napoleonico “stinto e sporco”

Parola di Oriana Fallaci e Sergio Romano : Viviamo in una repubblica contraria ai valori della Patria e dell’Italianità.

La disfida di Barletta

La disfida di Barletta

La mattina del 13 febbraio 1503 tredici cavalieri italiani si scontravano contro altrettanti cavalieri francesi per difendere l'onore, macchiato da accuse di codardia e tradimento mosse da Charles de Tongue, detto Monsieur de La Motte, nei confronti degli italiani. Il 15 gennaio di quell'anno si erano radunati nell'antica Osteria di Veleno, oggi ricordata come Cantina della Disfida, sede del quartier generale spagnolo e del Gran Capitano Consalvo di Cordova, soldati spagnoli e italiani. Al banchetto partecipavano anche dei militari francesi imprigionati precedentemente dagli spagnoli.

La tradizione racconta che durante le conversazioni, La Motte, irritato dagli elogi fatti dai militari spagnoli agli italiani, abbia veemente offeso l'onore di questi ultimi, accusati di viltà, codardia e tradimento. All'offesa non si poté che rispondere con le armi. Si decise che avrebbero combattuto per l'onore della patria in egual numero di uomini, cavalieri francesi e italiani. Furono chiamati a raccolta i più coraggiosi soldati del Regno e, dopo un assiduo scambio di missive tra il capitano della compagine italiana, Ettore Fieramosca, e La Motte, capitano dei francesi, si decise che il 13 febbraio di quello stesso anno, meno di un mese dopo il giorno dell'offesa, si sarebbe combattuto nel territorio compreso tra Andria e Corato. Massimo d'Azeglio narra che, dopo aver giurato fedeltà nella chiesa di Santa Maria Maggiore di Barletta, i soldati si diressero sul campo e attesero il nemico in ritardo. Ettore Fieramosca e i suoi soldati sconfiggeranno la compagina francese e sarà il capitano italiano a dare il colpo di grazia a quello francese, scendendo da cavallo. Il d'Azeglio afferma che i francesi, sicuri della vittoria, non portarono sul campo di battaglia i pegni pattuiti in caso di sconfitta e per questo furono condotti prigionieri in città.


I partecipanti italiani alla disfida

Ettore Fieramosca da Capua
Ludovico Abenavolo da Teano
Mariano Abignente da Sarno
Guglielmo Albimonte da Palermo
Giovanni Brancaleone
Giovanni Capoccio da Tagliacozzo
Marco Corollario da Napoli
Fanfulla da Lodi
Ettore Giovenale
Miale da Troia
Pietro Riccio
Romanello da Forlì
Francesco Salamone da Sutera

Gino Paoli, la testimonianza di un insospettabile

La testimonianza di un insospettabile

Gino Paoli: i miei parenti finiti nelle foibe
Il cantautore ligure: la sinistra è responsabile culturalmente, sono state coperte le connivenze tra titini e partigiani rossi

La vita e la storia devono essere davvero più complicate di quanto si creda, se accade di scoprire quasi per caso, in fondo a due ore di conversazione, che Francesco De Gregori non è l’unico cantautore simbolo della sinistra (mai rinnegata) ad aver vissuto in famiglia i crimini compiuti dai comunisti, sul confine orientale, al finire della guerra.
Racconta Gino Paoli che «mio padre, figlio di un operaio analfabeta delle ferriere di Piombino, aveva fatto l’accademia di Livorno ed era arrivato ai cantieri di Monfalcone come ingegnere navale. Là aveva sposato mia madre, che invece veniva da una famiglia benestante, i Rossi. Io sono nato nel 1934 e ho vissuto i primi mesi Monfalcone, poi ci siamo trasferiti a Genova. Dieci anni dopo, parte della famiglia di mia madre morì infoibata.

I miei parenti non erano militanti fascisti, erano persone perbene, pacifiche. Ma la caccia all’italiano faceva parte della strategia di Tito, che voleva annettersi Trieste e Monfalcone
. I partigiani titini, appoggiati dai partigiani comunisti italiani, vennero a prenderli di notte: un colpo alla nuca, poi giù nelle foibe. Mia madre e mia zia non hanno mai perdonato. Mi ricordavano spesso i nomi dei loro cari spariti in quel modo, senza lasciare dietro di sé un corpo, una tomba, una memoria. Peggio: una memoria negata. Per questo mia zia odiava gli jugoslavi; e per me è stata una bella sorpresa, da adulto, andare per la prima volta in Jugoslavia e scoprire che non erano affatto tutti così».

(…) (…)

http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2005/12_Dicembre/21/paoli.shtml

L'Isola di Arbe

Falsi Storici - L’Isola di Arbe

di Filippo Giannini su Il Popolo d’Italia

Da tempo questo giornale ricorda la tragedia vissuta da tanti italiani dell’Istria e della Dalmazia. Ne approfitto per portare la “mia piccola pietra” che valga ad alimentare un ricordo e a denunciare una delle tante contraffazioni storiche.
Qualche tempo fa un lettore scrisse al giornale col quale collaboravo affermando che nel 1942, per ordine di Mussolini . Questa notizia, a detta del lettore, fu riportata da una delle tante riviste che illuminano di verità storiche il nostro Paese.
Risposi che se fosse stato in grado di documentare l’asserto, avrei rivisto completamente la mia opinione su Mussolini. Lo stesso lettore fino ad ora non ha fornito quanto richiesto, né mai sarà in grado di farlo, tanto grossolana è la menzogna.
Dato, però, che Eraclito ammonisce e dato che la fantasia e le favole possono anche poggiare su una base di verità, la curiosità di modesto ricercatore, mi spinse ad indagare.
Dopo una breve visita all’Archivio dello Stato Maggiore Esercito, chiesi un incontro ad uno dei più validi studiosi del vicende dalmate, l’avvocato Oddone Talpo (purtroppo da tempo scomparso), autore della monumentale opera “Dalmazia – Una cronaca per la storia”. Le notizie da me raccolte dalle due fonti confermano quel che mi attendevo: quanto scritto dal lettore in questione, non solo è completamente falso, ma rappresenta addirittura un capovolgimento della realtà.
Inizio precisando che “l’isola prospiciente Fiume”, della quale si è accennato, era Arbe, oggi Rab.
Per la precisione storica, non è male rammentare che la Jugoslavia, concepita come Nazione, a tavolino, durante la conferenza della Pace del 1919 a Versailles, con chiaro intento anti-italiano, era composta da 14 etnie diverse e numerose minoranze, nonché da quattro antitetiche religioni. Ogni etnia e minoranza viveva (e vive) cementata dall’odio contro tutte le altre: cosicché da secoli quelle terre conobbero stragi di inusitata barbarie che portarono alla decimazione dell’etnia soccombente per opera di quella vincente, stragi oggi meglio conosciute come “pulizia etnica”.
Non è il caso, in questa sede di riportare i motivi per i quali l’Asse il 6 aprile 1941 invase la Jugoslavia, il cui esercito fu annientato in sole due settimane. Immediatamente si palesò l’impossibilità di portare la pace fra quei popoli così diversi gli uni dagli altri.
Sin dai primi giorni dell’occupazione varie bande slave locali erano più impegnate a sterminarsi fra loro che ad affrontare le forze occupanti. Cosicché la nostra 2° Armata – accolta con favore dalla popolazione civile – fu impiegata a frapporsi fra le varie bande onde evitare il compiersi di stragi. Poi vennero a formarsi le bande comuniste di Tito, foraggiate dall’Unione Sovietica obbedienti (in quel momento) agli ordini di Stalin.
Per cercare di pacificare quelle terre, il 7 giugno 1941 Mussolini nominò Giuseppe Bastianini (che si era già dimostrato valente diplomatico) Governatore della Dalmazia. Egli constatò immediatamente che la situazione era molto complessa: anche perché si trattava di governare un territorio che aveva per confinante l’”alleato” Ante Pavelic, capo degli Ustascia i quali, oltre tutto, non avevano accettato di buon grado l’occupazione italiana della Dalmazia.
Intanto le bande partigiane di Tito, dopo aver sterminato i cetnici del monarchico Mihajlovic, iniziarono una serie di azioni terroristiche contro le forze dell’Asse, ma anche contro i contadini colpevoli di non rispondere al reclutamento partigiano. annota Bastianini .
E’ poco conosciuta una direttiva del Primo Corpo Partigiano bosniaco, emessa nel 1943: . A queste azioni terroristiche rispondevano, con pari ferocia, gli Ustascia di Pavelic. Cosicché, facilitate dalla disposizione a pelle di leopardo delle varie etnie nel territorio, le stragi raramente potevano assumere una chiara connotazione di responsabilità. Serbi, croati, bosniaci, sloveni, ognuno massacrava gli altri: a Livno furono uccisi 12 cittadini, a Glivna 650, a Knin vennero impiccati tutti i quarantasette rabbini e gli ebrei superstiti della zona vennero posti in salvo dagli italiani (leggi: fascisti) con un trasferimento in Calabria. E’ inutile aggiungere che nel dopoguerra questi massacri perpetrati dagli slavi vennero addebitati alle forze dell’Asse (vedi dichiarazione di Giorgio Napolitano). La verità è completamente diversa: gli abitanti dei villaggi chiedevano la protezione delle nostre truppe. A Knin e dintorni i cittadini presentarono una petizione, con centomila firme, per chiedere l’annessione all’Italia e la cittadinanza italiana. Molti giovani del luogo si arruolarono nel Regio Esercito e molti di loro, circa un migliaio, dopo l’8 settembre 1943 continuarono la lotta antipartigiana nelle file della R.S.I..
Verso la metà del 1941 iniziarono gli attentati contro le nostre truppe, causando decine di morti e feriti. A novembre 1942 fu effettuato un attentato che, per la sua efferatezza fu peggiore dei precedenti. Nei pressi di Capocesto (Spalato) vennero massacrati in una imboscata 21 soldati italiani (17 marinai e 4 genieri). Si può immaginare il disgusto e la rabbia che provarono i soccorritori quando, giunti sul luogo, videro i corpi dei propri camerati orrendamente straziati. Seguendo una “tecnica” prettamente slava ai morti erano stati strappati i testicoli e gli occhi e i primi erano stati inseriti nelle orbite vuote. Come reazione, che oggi possiamo definire inumana e irrazionale – ma allora comprensibile e legittimata dalle vigenti leggi di guerra – il generale Cigala Fulgosi, comandante della Piazza di Spalato, dette ordine di attaccare dal cielo e da terra Capocesto. Per il vile attentato pagò la popolazione civile che lasciò sul terreno 150 morti.
Quando Bastianini venne a conoscenza del fatto, impartì l’ordine di soccorrere e, per quanto possibile, riparare il danno subito dalla popolazione.
Durante la lunga lotta antipartigiana le nostre truppe catturarono migliaia di individui passibili, per le citate leggi di guerra, di essere passati all’istante per le armi. Il Tribunale Straordinario, appositamente istituito per la lotta contro i ribelli, emise solo 58 sentenze capitali, e di queste 47 eseguite. Gli altri partigiani furono inviati in appositi campi di internamento e, fra questi troviamo appunto, l’isola di Arbe alla quale il lettore aveva fatto riferimento.
Allo scopo di evitare nuove situazioni di pericolo per i nostri soldati, per ordine di Bastianini furono internate anche le famiglie dei ribelli.
Questi nuclei familiari vennero sistemati in baracche. Forse a causa dello scarso riscaldamento, oppure per il cibo insufficiente e non appropriato al clima, inasprito dall’imperversare della gelida bora, si verificò la perdita di 350-400 internati.
Sulle vicende dell’isola di Arbe ha scritto Rosa Paini, ebrea, nel libro “I sentieri della speranza”. A pag. 130: .
Quindi nessun “massacro di donne e bambini” ordito da Mussolini, bensì un lodevole intento di salvare migliaia di vite umane.
Gli internati ad Arbe – e in molte altre località - slavi ed ebrei, dopo l’8 settembre ’43 caddero in mano dei tedeschi e degli Ustascia e la loro sorte fu tragica.
Ma questo è un altro discorso.
La storia di Arbe – divenuta in serbo-croato – Rab si arricchisce di un’appendice resa nota da un documentario trasmesso dalla RAI/TV l’8 luglio 1997: a Rab, nell’immediato dopoguerra, il “lager” era diventato uno dei più famigerati campi di sterminio di Tito. Il documentario ha attestato che nell’isola transitarono 30 mila persone: di queste 4.000 vennero bruciate o massacrate, molte si suicidarono, molte altre impazzirono.
Quella che abbiamo sinteticamente ricordato è una delle tante storie delle quali – per bassi motivi di politica – la verità è stata completamente capovolta.
Mi riprometto di tornare sull’argomento perché su questo, c’è molto, molto, ma molto altro da aggiungere. Altro che “il fascismo ha provocato molto dolore ali sloveni”.

L'Uso dei Gas in Abissinia

Falsi Storici - “L'uso dei Gas in Abissinia”

di : Filippo Giannini su Il Popolo d’Italia

Gli Italiani nella guerra di etiopica usarono o no i Gas asfissianti ?
Prima di entrare nel merito sarà bene ricordare che quando l’Italia affrontò quell’impresa, Francia e Inghilterra profetizzarono che, qualora il nostro Paese fosse riuscito a vincere quella guerra, questa sarebbe durata non meno di cinque anni e con perdite inimmaginabili. Grande fu lo scorno della “perfida Albione” allorquando quel conflitto si risolse per noi vittoriosamente in una manciata di mesi. Ecco allora venir fuori il motivo : “hanno vinto perché usarono i gas asfissianti”




In occasione del cinquantenario dell’impresa etiopica ed esattamente il 3 ottobre 1985, il primo canale televisivo della RAI, mandò in onda una trasmissione che doveva essere rievocativa e la direzione fu affidata ad Angelo Del Boca. Come è ormai uso in casi del genere, il programma “non prevedeva”alcuna controparte e, di conseguenza, lascio al lettore stabilire il livello di quello che doveva essere una tale ricostruzione storica.
Algelo Del Boca, è autore del volume “I gas di Mussolini”, come è autore del “saggio” “Indietro Savoia”, e non ha mai centellinato accuse e prese di posizione contrarie.

Per inquadrare il grado di attendibilità dell’Autore, trascrivo quanto ha riportato a pagina 45 del libro sui Gas in questione : “Montanelli ad esempio ha finalmente (?) ammesso l’impiego dei gas in Etiopia (..)”. E’ oltremodo strano che uno “storico”, fornito di ampia documentazione, senta la necessità di ricevere approvazione alle sue tesi da parte di un giornalista anche del prestigio di Indro Montanelli. Nella realtà Del Boca asserisce una grossa inesattezza; infatti Montanelli in data 12 gennaio 1996 su “Il Messaggero” ribadisce : “Se la guerra a cui ho partecipato corrisponde a questi connotati, vuol dire che io ne ho fatta un’altra. Che non c’ero. Ma quali gas ?” alla domanda : “Lei continua a non credere nei Gas ?” Montanelli rispose : “Una cosa sono le carte, che possono anche essere scritte per la circostanza, un’altra le testimonianze vissute”.

E passiamo alle testimonianze vissute…

Pietro Romano, “Il Giornale” del 18.02.1996 . “All’epoca ero un semplice gregario del gruppo Diamanti. Poiché il mio reparto, come risaputo, operò sempre in avanguardia nel Tigrai e altrove, nessuno dei suoi gregari sarebbe sfuggito alle contaminazioni, se fossero stati usati i Gas (…). Poasso assicurare che i gas non furono mai usati”.

Colonnello Giuseppe Spelorzo in data 18-03.1996 : “Ho la buona sensazione che il Sig. Del Boca e altri cretinissimi italiani ne sappiano molto meno di me. Già, io ho avuto la ventura di percorrere tutto l’Impero AOI (…) mai sentito parlare di Gas (…)”.
Ancora il Colonnello Spelorzo in data 12.06.1996 ribadisce : “I Gas ! Nessun militare del nostro esercito conquistatore era dotato di maschere antigas ! Ne sono testimone vivente : sbarcato a Mogadiscio il 24 giugno 1935, rimbarcato a Massaia il 28 marzo 1938 !”.

Giovanni De Simone su “Il Giornale d’Italia” del 23.03.1996 : “(…) In AOI non vennero usati i Gas. Se così fosse stato io sarei stato il primo a saperlo prestando servizio al Sim ove giungevano decrittati tutti i messaggi della intera rete radio del nemico captati dal “Centro intercettazioni” di Forte Bracci; un vero libro aperto per noi in possesso del “decifratore”. Mai rilevata una parola sui Gas”.

Sig. Giulio Del Rosso su “Il Giornale d’Italia” del 24.04.1996 testimonia : “Posso tranquillamente affermare che nel settore del fronte etiopico dal fiume Mareb, confine fra l’Eritrea e l’Etiopia, fino al Lago Tana (oltre 1000 Km, pedibus calcantibus) ove ha operato il VI Corpo d’Armata, comandato dal Generale Babbini e del quale faceva parte il mio reparto, non sono mai stati impiegati Gas tossici. Avevo raggiunto, io, Addis Abeba dopo le ostilità ed avevo avuto l’occasione di contatti con commilitoni provenienti da altri fronti e da altre località ove si susseguirono battaglie cruente e sanguinose, non ho mai sentito la parola “Gas” (…) Altra perla, me la suggerisce una graziosa francesina incontrata a Firenze nel 1937, secondo la quale giornali francesi ed inglesi riportavano che noi Cc.Nn. avremmo mangiato a colazione bambini abissini”.

Lo stesso Winston Churghill nella sua “La seconda guerra mondiale” a pag. 210, esclude l’uso dei Gas nei seguenti termini : “I Gas asfissianti sebbene di sicuro effetto contro gli indigeni non avrebbero certo accresciuto prestigio al nome d’Italia nel mondo”.

Concludiamo le testimonianze con il Generale Angelo Bastioni, presidente del gruppo Medaglie d’Oro, recentemente scomparso : “E’ una vigliaccata, rieccoci con le carognate. Io e i miei indigeni eravamo le avanguardie di ogni assalto, ci avrebbero almeno date le maschere antigas. Alla battaglia conclusiva di Maiceo, al Lago Ashraghi, quella a cui partecipò anche il Negus; perché lui che ne avrebbe avuto tutto l’interesse mai disse che lo combattemmo coi Gas ?”.

Giriamo allora le domande a chi ne sa più di noi e chiediamo :

1) Perché nessun militare italiano fu mai fornito di maschere antigas come si evince da migliaia di fotografie di soldati in Africa del tutto sprovvisti ?
2) Perché il Negus, benché fosse di casa alla Società delle Nazioni, mai denunciò l’uso di “armi illegali” da parte italiana prima e anche dopo la seconda guerra mondiale ?

l’invenzione del tradimento a Caporetto

l’invenzione del tradimento a Caporetto

di : Giorgio Rochat - 25 ottobre 2007

La battaglia
L’offensiva iniziò alle 2 del mattino con il fuoco dell’artiglieria. Per ottenere la sorpresa i tedeschi avevano rinunciato al bombardamento di più giorni delle grandi offensive del 1917, ma scatenarono un fuoco di straordinaria intensità, migliaia di cannoni e bombarde spararono per due ore senza interruzione sulle batterie nemiche con largo impiego di iprite (la cui persistenza sul terreno limitava fortemente i difensori) e sui comandi, con l’obiettivo di troncare i collegamenti telefonici. Il grosso bombardamento riprese all’alba sulle trincee; mentre i difensori ne aspettavano la fine per uscire dai ricoveri, piccole colonne tedesche avevano già superato i reticolati e penetravano in profondità, con l’aiuto di una fitta nebbia. lasciando ai rincalzi la cattura dei difensori frastornati, Nel corso della giornata gli agili nuclei tedeschi, ben dotati di mitragliatrici leggere, continuarono a avanzare rapidamente cogliendo di sorpresa le unità retrostanti. Il crollo subitaneo di 65 km di fronte e l’interruzione dei collegamenti telefonici mandarono in crisi l’organizzazione difensiva, i comandi persero il contatto con le loro truppe, ripiegarono in disordine senza riuscire a contrastare la progressione tedesca …

La battaglia che sto descrivendo non è quella di Caporetto, bensì l’offensiva tedesca del 21 marzo 1918 in Francia, tra Arras e St. Quentin, un fronte tenuto da quattro armate britanniche. I tedeschi avanzarono di 60 km in una settimana, gli inglesi ebbero 300.000 perdite, la loro V armata si dissolse. Nel 1917 l’esercito tedesco aveva messo a punto una nuova organizzazione offensiva per le grandi e decisive battaglie della primavera 1918 in Francia, con il successo citato del 21 marzo, ripetuto nelle Fiandre il 9 aprile e poi verso la Marna il 27 aprile. Si dimentica troppo spesso che questi nuovi metodi offensivi furono applicati per la prima volta a Caporetto, anche se allora ciò non poteva essere colto.




In Francia i grandi successi iniziali delle truppe tedesche non dilagarono in profondità come in Italia per più ragioni. Innanzi tutto la geografia. A Caporetto gli austro-tedeschi raggiunsero in due giorni le alture che dominavano la pianura friulana, prendendo alle spalle il pesante schieramento italiano sull’Isonzo. In Francia il terreno era pianeggiante, le avanzate tedesche creavano profonde sacche senza raggiungere posizioni forti né obiettivi strategici. Erano quindi esposte alla controffensiva delle riserve anglo-francesi, poi anche americane, favorita dalla buona rete ferroviaria francese, Qui sta la seconda differenza, Cadorna non aveva riserve per contrastare l’offensiva, doveva subirla senza potere reagire. Inoltre Cadorna aveva di fatto sciolto le sue divisioni, separando le brigate di fanteria (che avevano le maggiori perdite e quindi venivano fatte ruotare in trincea) dai loro reggimenti di artiglieria (che avevano minore logorio e quindi potevano restare al fronte per più mesi). Perciò le unità che ripiegavano dall’Isonzo non erano idonee a una battaglia nella pianura friulana, le brigate di fanteria non avevano l’appoggio dell’artiglieria e i reggimenti di artiglieria non potevano combattere perché privi del sostegno della fanteria . Né c’erano i comandi necessari per un impiego articolato delle unità, nella guerra offensiva sull’Isonzo contavano soltanto quelli di corpo d’armata, troppo pesanti per dirigere i combattimenti in ritirata.

Le grandi offensive tedesche in Francia avevano un altro limite, la progressione delle fanterie non poteva contare su un sostegno adeguato perché l’afflusso delle artiglierie e dei rifornimenti dipendeva dai cavalli, che avevano grosse difficoltà di movimento su un terreno sconvolto dai combattimenti. A Caporetto invece le divisioni austro-tedesche poterono approfittare di una buona rete stradale, nella pianura friulana furono raggiunte dalle loro artiglierie leggere e trovarono larghe provviste nei grandi magazzini italiani solo parzialmente distrutti (mancava la mentalità di fare “terra bruciata”). I rifornimenti rimasero comunque un problema. l’inseguimento perse vigore per la stanchezza delle truppe e i contrasti tra generali. Poi ci vollero settimane perché arrivassero sul Piave le artiglierie medie e pesanti necessarie per lo sfondamento del nuovo fronte italiano.

Mi soffermo su questi particolari, senza pretese di novità, per ricordare che Caporetto fu una battaglia che rientra nella norma della Grande Guerra. I tedeschi conseguirono successi maggiori sul fronte russo, poi in Francia nel 1918; gli errori di Cadorna che facilitarono la vittoria austro-tedesca furono in parte ripetuti dai generali inglesi e francesi. Una guerra è fatta di mosse e contromosse, la nuova organizzazione della battaglia offensiva che trionfò a Caporetto e nelle prime offensive tedesche in Francia nella primavera 1918 fallì quando gli avversari capirono come affrontarla, in Italia il 15 giugno, in Francia il 15 luglio 1918. Uno studioso equilibrato come Lucio Ceva ha scritto che “non sarebbe esagerato affermare che Caporetto si tramutò in un costosissimo successo italiano”, il che ci sembra eccessivo, ma fa giustizia di troppe denunce masochiste.

Rimane da ricordare che i generali francesi e inglesi non diedero ai soldati la colpa delle loro sconfitte del 1918.

L’invenzione del tradimento
La rapida progressione dei reparti austro-tedeschi era così imprevedibile e incontenibile da suscitare disorientamento a tutti i livelli, poi dubbi crescenti, infine voci incontrollabili sulla crisi delle truppe. Non è possibile ricostruire il clima convulso di sconforto e speranze dei giorni di Caporetto, l’unica fonte sono i diari degli ufficiali inferiori che Mario Isnenghi ha raccolto e studiato . La loro reazione immediata è il rifiuto, poi il disorientamento, nessuno riesce a capire quanto sta succedendo, anche per la mancanza di informazioni (la rigida censura sulla stampa finì soltanto il 1° luglio 1919). La conseguenza fu la diffusione della leggenda di Caporetto come disastro dovuto in sostanza alla crisi dei soldati (non dei comandi, le accuse a Cadorna, Capello, Badoglio e altri vennero dopo), con molte varianti: tradimento, rivolta mancata, sciopero militare, collasso di truppe logorate dalla trincea, una sorta di ubriacatura collettiva dei soldati, e altro ancora. Se ne trova una traccia anche nella nota Canzone del Piave. Una leggenda che esplose nelle battaglie politiche sulla gestione del conflitto dell’estate 1919 con la pubblicazione dell’Inchiesta su Caporetto , ma continuò a vivere anche quando finirono le polemiche e la guerra divenne indiscussa e poi sacralizzata. Una leggenda strumentalizzata dal regime fascista, che cercava una legittimazione come protagonista della riscossa patriottica contro i traditori e disfattisti di Caporetto. E che continua a pesare oggi come immagine negativa dell’esercito e del soldato italiano.

Impiego il termine di leggenda perché questa visione di Caporetto non ha mai avuto un riscontro concreto nelle vicende della battaglia, né un qualche appoggio documentario. Negli studi di Pieri e Bencivenga, poi Monticone, nella Relazione dell’Ufficio storico dell’esercito, infine nel recente fervore di studi settoriali e documentati, anche con fonti nuove (rinviamo alle comunicazioni di questo convegno) la sconfitta viene ricondotta nei suoi termini militari: nessun tradimento o “sciopero militare”, nessun cedimento dovuto al rifiuto dei soldati. Fu la rapida e inattesa avanzata delle truppe austro-tedesche a determinare la facile resa o lo sbandamento di molti reparti nei primi giorni. Sbandamenti che si moltiplicarono nella ritirata, si dimentica spesso che buona parte degli uomini che ripiegarono in disordine appartenevano alle retrovie dell’esercito, centinaia di migliaia di non combattenti. Si dimentica anche che i primi a perdere il controllo della situazione furono i comandi, Cadorna e i generali, come è stato poi denunciato con ampiezza di dettagli e aspre polemiche.

Torniamo al punto di partenza, il disastro di Caporetto rientra nella norma della guerra, la leggenda che ne addebita la responsabilità ai soldati non ha base scientifica. Vale però la pena di ricordare che il padre della leggenda, il primo a parlare di tradimento delle truppe, fu Cadorna. Anche altri generali, come Badoglio e Caviglia, denunciarono il cedimento di alcune brigate (più tardi fecero ammenda), ma non avevano un accesso ai mass-media. Cadorna invece poteva parlare al governo e all’opinione pubblica con i suoi bollettini, era il maggiore responsabile della guerra, il generale che avrebbe dovuto difendere l’onore dei suoi soldati.

Nei miei primi studi sulla Grande Guerra avevo dato un giudizio piuttosto positivo di Cadorna (si veda la voce che gli ho dedicato nel Dizionario biografico degli italiani), ma allora il primo problema era di difendere il suo operato complessivo da un’altra leggenda, che addebitava alla sua ristrettezza di visione (o peggio) gli orrori della trincea e il fallimento delle offensive italiane (una leggenda dura a morire, anche per lo scarso interesse degli storici politici per i problemi militari). Cadorna non poteva capire la drammatica realtà di una guerra così diversa dalle previsioni, né accettare il fallimento di una guerra offensiva come quella italiana. In questo non era diverso da Joffre e dai generali inglesi o tedeschi, né più colpevole dei governi che fornivano le armi e i soldati per le grandi battaglie senza successo. Quindi non discuto la sua gestione della guerra italiana, ma non accetto la sua proterva tendenza a addebitare i suoi insuccessi al governo e al supposto disfattismo di cattolici, giolittiani e socialisti. Un governo più forte lo avrebbe rimosso già nel 1916 . Nei miei studi ho poi maturato il rifiuto del comportamento di Cadorna verso i soldati, verso i quali fu sempre avaro di riconoscimenti e privo di interesse concreto per le loro condizioni di vita, prodigo invece di critiche e di provvedimenti repressivi troppo noti per doverli ricordare. Un comandante ha il dovere di portare i suoi uomini a morire, ma deve rispettarli, non considerarli carne da cannone su cui riversare la colpa dei suoi insuccessi.

Fu Cadorna a inventare Caporetto come tradimento. Non ebbe mai dubbi. La mattina del 25 ottobre telegrafava al governo: “Alcuni reparti del IV corpo d’armata abbandonarono posizioni importantissime senza difenderle”. E poi diceva al suo fedele collaboratore gen. Gatti: “L’esercito, inquinato dalla propaganda dall’interno, contro cui io ho sempre invano lottato, è sfasciato nell’anima. Tutto, pur di non combattere. Questo è il terribile di questa situazione” . La sera del 25 Cadorna telegrafava a Roma: “Circa 10 reggimenti arresisi in massa senza combattere. Vedo delinearsi un disastro, contro il quale ho combattuto fino all’ultimo”. In realtà Cadorna non aveva informazioni precise sui combattimenti, il suo servizio informazioni era da sempre di scarsa efficienza. E infatti aveva perso il controllo della situazione, tanto da credere (contro quanto dicevano i suoi generali) che tutta la II armata fosse in piena crisi, travolta dal disfattismo, fino a negarle le linee necessarie per la sua ritirata dall’Isonzo. Il 27 ottobre Cadorna emanò il noto bollettino, diffuso all’estero prima che il governo riuscisse a bloccarlo: “La mancata resistenza di reparti della II Armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia … “. E poi telegrafava al governo: “L’esercito cade non sotto i colpi del nemico esterno, ma sotto i colpi del nemico interno, per combattere il quale ho inviato al governo quattro lettere che non hanno ricevuto risposta” . Dopo di che si può capire come Cadorna avesse perso il controllo della situazione e non fosse in grado di gestire la ritirata di truppe in cui non aveva più fiducia. Il suo bollettino del 27 ottobre rimase come la prima, più dura, autorevole, ma infondata accusa di tradimento rivolta ai soldati italiani.

Nota biografica

Giorgio Rochat (1936) ha studiato e studia la storia militare, coloniale e politica dell’Italia contemporanea.
E’ stato professore di Storia contemporanea nelle Università di Milano, Ferrara e Torino, dove ha insegnato Storia delle istituzioni militari anche presso la Scuola di applicazione dell’esercito. Presidente dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia nel 1996-2000 e della Società di studi valdesi 1990-1999.


I più recenti dei suoi molti volumi sono:


La Grande Guerra 1914-1918, con Mario Isnenghi.

La Nuova Italia, Milano 2000;

Le guerre italiane 1935-1943. Einaudi. Torino 2005.

venerdì 21 agosto 2009

Uso politico della Storia

Uso Politico della Storia - Generalità

In Italia come nel resto del mondo, la storia viene scritta dai vincitori.
L’abbiamo visto più volte. In Francia la controrivoluzione Vandeana, comincia solo ora a far capolino dopo 2 secoli di silenzio. Il genocidio consumato, è tutt’ora un tabù che la democratica Francia fa finta di ignorare glorificando una rivoluzione che consegnò all'Europa 25 anni di guerre sanguinosissime !
Riscrivere la storia però, in modo retroattivo non è da tutti. Nel nostro Paese invece, pare abbiamo trovato una soluzione anche a questo. Non solo la storia dal 1946, è stata scritta dalla repubblica ed in essa dalla parte politica più coesa - la sinistra - ma si è operato anche la riscrittura della storia che parlava della Monarchia, di Casa Savoia, e quindi del Risorgimento che ha consegnato a noi un Paese Unito ed Indipendente.
Ciò che la Monarchia non aveva osato - oscurare la parte risorgimentale che parlava di moti e personalità repubblicane - …ricordiamo che decine sono stati i monumenti edificati a Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, così come una sostanziosa toponomastica stradale è stata a loro dedicata in epoca Sabauda, è stato invece osato a quattro mani dalle istituzioni repubblicane in questi 63 anni di potere, non solo per oscurare, ...ma per rimuovere fisicamente, per riscrivere, …per sostituire !

Due sono le linee di pensiero ANTI italiane oggi, ed ambedue vedono l’interesse della politica nel loro sviluppo per il raggiungimento dei loro obiettivi :

Prima linea di pensiero - generalista e sfascista
dall' immediato dopoguerra ai primi anni '80 del secolo appena passato

Seconda linea di pensiero - particolare e a fine secessionista
dalla metà degli anni '80 del secolo passato ad oggi. Questa linea di pensiero oggi è il vero ariete che sta facendo vacillare l'edificio Italia.

Documenti citati - elenco

Documenti citati
(Elenco generale)

Importanza della Storia

Importanza della Storia
(Considerazioni odierne e conseguenze nella società italiana)

Partirei dall’esempio dell’Inghilterra.
Non è usuale per me prendere l’esempio dagli Inglesi, …ma, conoscendo un pochino la Gran Bretagna, risulta quasi incredibile il duro attacco al governo del suo Paese da parte dello scrittore, storico e giornalista britannico Sir Roy Strong . Pubblicato sul magazine “Cotswold life” ad inizio anno e riportato su mensile illustrato italiano “Storia in Rete” (No. 40 di Febbraio 2009 a Pag. 10). Egli in pratica, avvisa i suoi concittadini della rapida perdita di riferimenti storici che renderà i giovani privi di elementi di giudizio sul mondo
Se ciò che Sir Roy Strong scrive nel suo articolo “Il Governo contro la storia a scuola” è vero, l’Italia del dopoguerra vive sicuramente senza memoria.

E’ sotto agli occhi di tutti coloro che vogliono vedere. Dal dopoguerra, e soprattutto negli ultimi 30 anni, il nostro Paese è tornato ad essere un’espressione geografica come amano ricordarci gli estimatori del Metternich o i nostalgici filo austriaci della Lombardia e del Veneto falsificando peraltro la verità.
Infatti riferendosi all’Italia, questa frase, non è mai stata detta dal Metternich stesso, ma risulta essere un falso d’epoca, è servita durante l’avvio del Risorgimento e durante l’epopea risorgimentale stessa a “tonificare” i muscoli degli italiani che combattevano lo straniero. Ma mentre un tempo questa piccola bugia serviva a “costruire” una Nazione attirando volontari per combattere lo straniero fidando sul sentimento di italianità presente, oggi viene invece usata per disgregare il sentimento di italianità del popolo per poter arrivare alla secessione !
(vedere : “Falsi Storici - Metternich non denigrò l’Italia” )

La maggior parte della popolazione pare ormai che si identifichi come italiana soltanto in occasione delle partite della nazionale di calcio. Ma ricordiamo che a Verona, in occasione delle qualificazioni per Italia 90, anche la nazionale di calcio fu fischiata con chiaro obiettivo politico. Al tempo fu l’azione isolata di un modesto gruppo di esaltati, …oggi, non è più così !

Siamo infatti testimoni e prigionieri di un’isteria quasi collettiva che vede ad esempio la Sicilia parlare di Autonomia politica ed amministrativa, in Veneto si stampano giornali in “lingua veneta” e si inveisce contro tutto ciò che è italiano…
In Sardegna si dicono esclusivamente “Sardi”, e dal 1999 il Sardo, un insieme di diverse parlate pseudo dialettali e considerata con legge dello Stato lingua minoritaria, nonostante che il tentativo dell’ex Governatore Soru di “unificare” le parlate in un idioma unico come fatto in Friuli sia fallito per l’impossibilità materiale di mettere tutti d’accordo.
In Liguria opera il MIL (Movimento Indipendentista Ligure). Questi contesta l’unità italiana per “forma” …in quanto - dicono loro - ai Liguri non sarebbe stato permesso di scegliere con un plebiscito come successo per altre regioni e territori italiani.
Questi signori, hanno chiaramente la memoria corta. Dimenticano infatti cosa fu della Corsica, venduta dai liguri (proprio loro) alla Francia per appianare i debiti della Repubblica di Genova !
Duo-siciliani o Neo Borbonici in Campania (4 gatti davvero) godono di finanziamenti regionali e provinciali che li incoraggino a soffiare sul fuoco del contro-risorgimento, elencando primati tecnici ed economici presunti prima dell’Unità e poi persi per colpa della stessa, in un contesto odierno, che sfalsa la realtà e tende a nascondere la verità del tempo.
E’ sufficiente leggere ciò che uno storico del tempo ebbe a scrivere al riguardo (Giustino Fortunato), “che Eravamo ancora, nel 1860, sul limitare del medio evo, quando, di botto, fummo cacciati nell'età moderna; o meglio, le due età s'incontrarono a un tratto, si mescolarono, si confusero nel modo più singolare e per via de' più stridenti contrasti. Nessun paese, per ciò, è più arretrato del nostro nel sentimento della libertà.” …una libertà che è stata raggiunta solo con l’Unione, ma che non fu capita allora, perché quei popoli non erano abituati all’idea stessa della libertà !
In Valle d’Aosta, oggi ricchi ed “autonomi” grazie ai soldi di tutti gli italiani, si danno un tono sostituendo la toponomastica cittadina in lingua italiana o bilingue con altra esclusivamente in lingua francese. Stessa solfa in Alto Adige, dove ingentissime somme elargite dallo Stato sono servite ad emarginare la parte della popolazione di lingua italiana e, di fronte ai turisti del nostro Paese si fa finta di non comprendererne la lingua ! A Bolzano siamo arrivati a cancellare addirittura i simboli della repubblica italiana dalle pagelle scolastiche (Vedere notizia battuta dall’agenzia ANSA nel luglio del 2009)

In Lombardia si promuove la cultura celtica (precursore fu Gianni Brera sul finire degli anni ‘80, noto giornalista sportivo…) in contrasto alla cultura latina di mezza Europa. Anche in questo caso, mostre, seminari e conferenze con il patrocinio di Regione Province e Comuni, sembrano non rendersi conto del ridicolo di cui si ricoprono. Per rendersi conto di questa idiozia, basti pensare che tra i più importanti scrittori e filosofi Romani, Virgilio era di Mantova, Plinio era di Como e Catullo di Verona.

Stiamo insomma oscurando un affresco del Michelangelo, per appendere ad una parete nuda un dipinto del Bernardino Gagliari di Adorno Micca. Pittore e scenografo di valore - locale - ma capite che non si può credere di sostituirlo al Giotto senza suscitare ironia !
Insomma stiamo facendo di tutto per dare valore di “civiltà” alle palafitte del lago di Viverone facendo finta che l’Impero Romano e le migliaia di opere lasciate da esso sul nostro territorio siano state un fatto estemporaneo alla nostra storia.

Per carità, si può anche credere ad Asterix e Peter Pan !

Questi citati, sono pochi esempi, che danno il “polso” al disagio che i cittadini hanno nei confronti - ormai - della loro italianità sotto la pressione di spinte politiche fortissime.
Dove arriveremo ? Staremo a vedere, ma il futuro non è roseo. !

Abbiamo aperto questo paragrafo citando l’Inglese Sir Roy Strong.
Vorrei a questo punto rispolverare un articolo scritto da me nel luglio del 2006, dove la parte saliente recitava che :
“(…) …cancellare la Storia vuol dire sostituire dei “punti fissi di riferimento” con “punti mobili di interesse”. Ciò porta enormi vantaggi in chi Governa oggi reggendosi sul falso, ma toglie in chi è governato la capacità di difendersi, mescolandogli sotto al naso le carte, impedendogli il confronto, ed in ultima analisi la capacità ed il diritto democratico di scelta secondo sua volontà.”
(vedere testo completo pubblicato su Nuova Provincia di Biella il 5 agosto 2006)

Ho anticipato i tempi ? …niente affatto, del resto Gorge Orwel famoso scrittore e giornalista scrisse che “chi controlla il passato, controlla il presente”.
La cultura insomma è potere, da tempo immemore, ma oggi più che mai, perché nell’era dell’informatica e di internet, dell’informazione globale e libera, la conoscenza è diventata più critica di quando i libri si scrivevano a mano.

Un libro scritto a mano dai Monaci Benedettini, si leggeva, si soppesava e si studiava anche. Oggi siamo bombardati da 1000 notizie al giorno.
Le dimentichiamo tutte prima di addormentarci la sera.
L’indomani ci svegliamo facendo “reset” !
Chi detiene il potere oggi quindi, …fa in fretta a “caricare” la nostra memoria con ciò che gli interessa per soddisfare i suoi bisogni.

Il valore della Storia

Il valore della Storia

Se è vero che la storia viene scritta dai vincitori, è altrettanto vero che la Storia non può essere ignorata, o peggio riscritta con validità retroattiva. La notizia succeduta ai recenti fatti riguardanti SAR Vittorio Emanuele circa l’intenzione del Movimento Indipendentista Ligure (MIL) di rimuovere in Genova un monumento dedicato a SM il Re Vittorio Emanuele II, il Padre della Patria, mi porta a ritenere che il disordine italiano sia ormai giunto al punto limite della rottura. Che un manipolo di invasati da osteria posso impunemente pretendere di cancellare la Storia del suo Paese è ridicolo, e si commenta da se, ma che dal Presidente della repubblica non giunga almeno un rimprovero verbale per questo, è incredibile !
Ricordiamo che spetta a Lui difendere la nostra Storia, uno dei valori su cui si fonda l’unità della nostra Patria che pretende di rappresentare.
Evidentemente l’impegno a nascondere la sua di storia (…vergognose dichiarazioni del 1956) e i continui impegni nel sostenere l’attuale maggioranza di Governo devono impegnarlo a tempo pieno… pazienza !
Ma che dire delle stesse Istituzioni che in questo periodo alimentano questa follia collettiva ?

In Sardegna infatti alcune amministrazioni locali hanno avviato una “crociata” che ha lo scopo sistematico di cancellare i riferimenti storici di Casa Savoia dalla toponomastica stradale e quant’altro. Già, perché il pericolo numero uno per questa repubblica da avanspettacolo è sempre Casa Savoia. Basterebbe chiedersi a mente serena cosa può mai centrare una goffa frase citata in un contesto privato (che tale doveva restare) del Principe Vittorio Emanuele con la figura immortale di Re Carlo Alberto risalente a 150 anni fa, per rendersi conto della comicità del provvedimento.

Così non basta l’azione sconsiderata ed impunita di un magistrato giudicato anche all’estero particolarmente “libero ed indipendente”, non è sufficiente l’azione devastante e palesemente irregolare dei media nazionali, occorre promuovere nel silenzio/assenso istituzionale una vera rivoluzione culturale di “cinese” memoria, allo scopo di estirpare dalle menti della popolazione ricordi e richiami a ciò che ci ha fatto grandi, alimentando rancori e odio comunque senza riscontro nella gente comune.

Occorre a questo punti essere chiari, …cancellare la Storia vuol dire sostituire dei “punti fissi di riferimento” con “punti mobili di interesse”. Ciò porta enormi vantaggi in chi Governa oggi reggendosi sul falso, ma toglie in chi è governato la capacità di difendersi, mescolandogli sotto al naso le carte, impedendogli il confronto, ed in ultima analisi la capacità ed il diritto democratico di scelta secondo sua volontà.

In questo modo “domani”, potremmo essere costretti a cantare una canzone di Vasco Rossi al posto dell’inno di Mameli, o a dover studiare la lingua Croata per leggere le informazioni alla stazione ferroviaria, così come siamo già stati costretti da un colpo di spugna e senza possibilità di scelta a dover rinunciare alla nostra sovranità nazionale, barattando il fastidio di dover presentare un documento alla frontiera in cambio di migliaia di clandestini incontrollati, così come abbiamo dovuto dire addio alla Lira in favore del “vantaggioso” Euro.

Che dire ? …nulla, ognuno in fondo ha ciò che si merita, è l’affluenza alle urne delle ultime consultazioni elettorali ne sono una conferma.
La domanda che mi pongo però è : siamo coscienti di ciò ?

28.07.2006 - Alberto Conterio

Pubblicato su Nuova Provincia di Biella il 5 agosto 2006

Via il simbolo della repubblica italiana dalle pagelle a Bolzano

Via il simbolo della repubblica italiana dalle pagelle a Bolzano

di Roberto Tomasi
Bolzano. Ha suscitato molte polemiche la decisione della provincia di Bolzano sulla base della quale gli studenti avranno un titolo di studio dai connotati prettamente locali. E tante sono state le polemiche che l'assessore alla scuola in lingua italiana Christian Tommasini ha annunciato in serata che la delibera potrebbe essere ritirata, probabilmente lunedì prossimo: "Si è trattato di un errore - ha detto - soprattutto in un periodo come questo, già abbastanza carico di tensioni etniche. Le questioni relative ai simboli rischiano solamente di avvelenare il clima di pacifica convivenza".Il governatore Svp Luis Durnwalder ha parlato di "scelta politicamente inopportuna", annunciando anche lui un possibile ripensamento che, però, probabilmente non potrà esservi quest'anno, visto che la chiusura è ormai alle porte. La decisione sul simbolo era stata presa con il parere unanime dei sovrintendenti, ed era poi passata in giunta tra decine di altre delibere. I sovrintendenti in Alto Adige sono tre, quello italiano, quello tedesco e quello ladino, visto che le scuole qui sono tre, una per ognuno dei tre gruppi linguistici riconosciuti e tutelati dallo statuto d'autonomia del quale spesso sono indicate come uno dei fiori all'occhiello. Dopo la serie di polemiche degli ultimi giorni che sfocerà giovedì in una visita del ministro Roberto Maroni che ha convocato a Bolzano un 'tavolo della convivenza', un altro problema è dunque finito sul tavolo del governatore Durnwalder, che precisa: "Sul piano squisitamente giuridico la decisione è corretta". Bolzano, infatti, dal 1972 ha competenza secondaria in materia di pubblica istruzione e, "come sulle facciate delle scuole c'é il simbolo della Provincia autonoma, così - ha detto il governatore - quest'anno sarà anche sulle pagelle". Luigi Berlinguer (Pd), già ministro della pubblica istruzione, ha ammonito "a fare attenzione a non danneggiare gli studenti" che all'estero potrebbero essere svantaggiati da un diploma made in Suedtirol. Salomonicamente, Berlinguer ha proposto che sulle pagelle compaia il simbolo dell'Ue. Unanime la posizione del Pdl, con il deputato Giorgio Holzmann ad accusare le autorità scolastiche di avere provocato "gravi danni" e con il coordinatore e padre storico della destra Pietro Mitolo, 87 anni, ad affermare in modo lapidario: "A Bolzano c'é ancora chi deve digerire il quattro novembre del '18'', vale a dire la data in cui l'Alto Adige è passato all'Italia. Sarcastico, infine, il commento della passionaria separatista Eva Klotz: "In realtà - ha detto la consigliera provinciale di Suedtirol Freiheit (Libertà per l'Alto Adige) - si tratta soltanto un'illusione ottica. Non comprendo perché vi sia chi si fa venire il mal di pancia per una questione come questa. Anche se non vi sarà il simbolo, rimarranno pur sempre i contenuti centralisti nei programmi della scuola locale. E certo non si può dire che l'Italia dia segno di voler applicare il federalismo".

da : Agenzia ANSA - Luglio 2009