Finalità di questo Blog

Lo scopo di questo Blog "150° Unità d'Italia" è quello di raccogliere tutte le informazioni relative all'evento, e denunciare il tentativo di strumentalizzare la Storia ai fini anti italiani, così come denunciare l'impegno Istituzionale nel far passare questo importante traguardo il più inosservato possibile.

martedì 28 dicembre 2010

Gli austriaci e il Papa Re : così Bologna seppe dire “basta”

Gli austriaci e il Papa Re : così Bologna seppe dire “basta”

Il risveglio dei liberali nella seconda metà dell’800:
l’immobilismo pontificio spinse i moderati verso i Savoia

di Angelo Varni
12 dicembre 2010

Il Risorgimento incontra Bologna in una fase di particolare complessità della vicenda storica cittadina.
Con la fine, infatti, dell'avventura napoleonica l'intero sistema delle relazioni sociali si trova ad essere posto in discussione, in vista di un ritorno al passato del tutto estraneo ormai ai modi di vita e alle coscienze dei più. In particolare, il riproporsi del governo della Chiesa di Roma appare in contraddizione con la principale acquisizione degli anni «francesi »: la necessità, cioè, dei bolognesi di riconoscersi all'interno di uno Stato moderno, dove la sovranità, almeno in via di principio, appartenesse ai cittadini, ugualmente partecipi di diritti e doveri verso la collettività.


Nei primi anni la restaurazione voluta da Pio VII e dal segretario di Stato, cardinal Consalvi, cercò la via della comprensione verso il nuovo, ma i codici civile e penale vennero aboliti e il tentativo di richiamarsi al tradizionale spirito municipale fu più proclamato che praticato, aggravando anzi nei fatti il centralismo degli anni «francesi». Il disorientamento politico, dunque, del gruppo dirigente risultò drammatico, mentre la crisi economica incalzava.
Persino gli echi delle sommosse rivoluzionarie del '20 e '21 trovarono scarsa risonanza. Pochi pure gli aderenti agli sporadici movimenti segreti: pareva farsi strada una sorta di nostalgia del passato, che era soprattutto rifiuto di un oscuro presente e che magari si manifestava con i consensi espressi verso gli appartenenti alla famiglia Bonaparte, di passaggio o stabilitisi proprio in città. Un clima che si aggravò con l'ascesa al pontificato nel 1823 di Leone XII, deciso ad eliminare le aperture politiche del suo predecessore e che si scosse solo nel '31 con una rivolta in grado di dichiarare decaduto il potere politico pontificio, ma ancora nell'ottica del municipalismo.
La successiva repressione veniva affidata alla mal tollerata presenza in città delle truppe austriache che davano visiva dimostrazione della dipendenza dello Stato pontificio dallo straniero. E stava proprio qui, in questa subordinazione, che il governo di Roma testimoniava il suo distacco dai nuovi tempi. Tempi nei quali l'eredità del 1789 si manifestava con l'adesione ad un'idea di indipendenza nazionale, che riempiva di contenuti istituzionali e di aspirazioni ideali il richiamo di sempre dei letterati italiani all'unità della penisola. Tanto più che in tal modo si diveniva partecipi dell' atmosfera culturale dominante in Europa, caratterizzata da un romanticismo fatto di richiami alla dimensione storica, confluente in una generale ricerca di identità nazionale, che finiva per colorarsi di aneliti alla libertà, all'indipendenza, alla democrazia.
Ecco che allora a Bologna cominciano ad animarsi cenacoli intellettuali, che abbandonano le esercitazioni accademiche (quelle piacevolmente frequentate da Leopardi nel suo soggiorno cittadino del '25/'26 e che gli avevano fatto amare Bologna), nella ricerca di un rinnovamento che non poteva non guardare ai nuovi orizzonti economici aperti in Europa dallo sviluppo di un industrialismo capitalistico guidato dalla borghesia, dai suoi valori e dalle sue pratiche, quali la proprietà, la libertà dei commerci, l'unità dei pesi e delle misure, le comunicazioni ferroviarie, l'istruzione popolare, lo sviluppo del credito ed altri ancora.
Senza dimenticare mai l'esigenza - e Marco Minghetti, uno dei futuri successori di Cavour, ne fu espressione costante - di accompagnare un simile progresso materiale con un impegno sociale che doveva farsi carico delle condizioni di miseria in cui vivevano almeno la metà degli oltre 75 mila abitanti della città.
Fu proprio il rifiuto del governo pontificio ad assumersi tali compiti in forme diverse dall'esercizio caritatevole, a spingere Minghetti e i suoi amici liberali ad abbandonare il sogno di possibili riforme all'interno del vecchio Stato e questo nonostante le speranze accese dall' elezione di Pio IX nel 1846.
Si arrivò così, anche a Bologna, all'esplosione del '48, con i volontari pronti a battersi contro l'Austria; con le prediche entusiasmanti del barnabita Ugo Bassi in piazza Maggiore; con il nuovo ingresso degli Austriaci in città e lo spontaneo insorgere del popolo minuto che portò alla loro cacciata dell'8 agosto; con la successiva indomita resistenza al cannoneggiamento austriaco del maggio '49, voluta dalla popolazione, che corse piangente a raccogliere come reliquie le zolle insanguinate dalla fucilazione di Ugo Bassi, colpevole di aver accompagnato Garibaldi nel drammatico tentativo di sfuggire all'inseguimento degli eserciti nemici dopo la fine della Repubblica romana.
A quel punto, sconfitte le forze della rivoluzione democratica e disponibili i governi esistenti solo ad affidarsi alle armi straniere, il mondo liberale, anche quello bolognese, capì che l'unica via percorribile verso il progresso stava nell'abbracciare un Risorgimento nazionale che, reso possibile dal sostegno della monarchia sabauda, tenesse insieme i capisaldi della moderna civiltà europea con il mantenimento dell'ordine sociale. Tanto che furono proprio questi «moderati», buttato ormai il cuore oltre l'ostacolo, a effettuare la rivoluzione del 12 giugno 1859, che pose definitivamente fine al governo pontificio a Bologna.
La strada dell'unità era tracciata e fu sancita nel plebiscito dell'11-12 marzo 1860. Valori liberali,
dunque, senza dubbio, cementanti la borghesia colta e la nobiltà progressista; ma soprattutto, a far da lievito al consenso verso il Risorgimento di gran parte dell'opinione pubblica, il senso orgoglioso dell'indipendenza dal potere politico altrui, dallo straniero in definitiva, dove l'antica libertas municipale prendeva corpo nella più larga comunanza nazionale, la sola in grado, ormai, di preservare una giusta dimensione all'autonomia e all'autogoverno. Un diffuso sentimento che vedeva i bolognesi far da spettatori entusiasti e commossi alle tante rappresentazioni delle opere teatrali di un Pellico, di un Dall'Ongaro, di Verdi soprattutto, o del «Guglielmo Tell» di Rossini, peraltro dimorante a Bologna dal 1805 al '48.
Le meditazioni politico-economiche di Minghetti e del suo ceto sociale trovavano, dunque, riscontro nel maturarsi di un'adesione agli obbiettivi risorgimentali testimoniata dalle suggestioni contenute nel diario di un popolano dal colorito linguaggio derivato dai modi dialettali, piccolo artigiano nel settore alimentare, Francesco Majani che, ostile dapprima agli iniziali moti rivoluzionari, non poté che applaudire ai concittadini che avevano reso «malconci e batuti» quei militari austriaci venuti - siamo nel '48 - con altero contegno in città, a «misurare cogli occhi i Cittadini, col entrare nei Caffè, ordinando dei gelati a tre colori »; e ancor più quanti furono capaci di reggere l'urto dell'artiglieria nemica, al punto che: «Quando li Tedeschi viddero che gli venivano Morti vari de’ suoi maggiori Ufficiali e che non vi erano le Ova da comprare a buon mercato, pensarono di fugire».
Da allora in poi il diario è un crescendo di affermazioni intonate all'idea nazionale e di fedeltà al re sabaudo, accolto a Bologna dall'entusiasmo popolare, tanto che «in tutti si leggeva nel volto la Alegria e contentezza». E il narratore dichiara la gioia di essere vissuto fino a poter assistere ad un simile irripetibile avvenimento, collegandolo - con straordinaria intuizione - allo stupefacente progresso intervenuto che «al certo i nostri antenati non hanno mai veduto, perché tutte le scienze ed arti in questo secolo hanno fatto uno slancio non plus ultra».
Era a tutti evidente, dunque, nella Bologna entrata nell'assetto unitario, che il cammino risorgimentale era stato l'inevitabile coronamento politico e ideale per una società che intendeva agganciare la sua crescita materiale e civile a quanto di positivo stava accadendo nei Paesi più avanzati d'Europa.

Tratto da : Corriere della Sera, 12 dicembre 2010

lunedì 20 dicembre 2010

Medaglia commemorativa per il 150° anniversario d'Italia

L’unico conio in ricordo della proclamazione del Regno d’Italia

Siamo in grado di fornirvi le immagini delle vere medaglie coniate per commemorare il 150° anniversario.
Dobbiamo dire che sono davvero molto belle e suggellano molto bene non solo l’anniversario in se, ma il successo di una iniziativa congiunta, portata avanti con caparbietà da più organizzazioni monarchiche assieme. Segno che quando sappiamo impegnarci tra noi e per noi, i risultati sono positivi.


Grazie quindi ad Alleanza Monarchica al Movimento Monarchico Italiano e all’Istituto Nazionale per la Guardia alle Reali Tombe del Pantheon, e soprattutto all’amico Franco Ceccarelli.

Nella riproduzione fotografica i due esemplari in nostro possesso :
Diametro cm 6,00 in bronzo lucido.
La medaglia, che non sarà posta in commercio, può essere richiesta alla Presidenza di Alleanza Monarchica (Avv. Roberto Vittucci Righini). Il costo è fissato in Euro 30,00 più l’eventuale cofanetto al costo di 5 euro e spese postali.

Affrettatevi, perché le copie non sono infinite.

Per informazioni : info@alleanza-monarchica.com 

venerdì 17 dicembre 2010

La cultura anti-unitaria degli italiani

La cultura anti-unitaria degli italiani

7 Dicembre 2010

In tema di Monarchia e di concessione dell’autorizzazione ai discendenti maschi di Casa Savoia per l’ingresso nel territorio nazionale.
Finalmente, qualche anno fa si è abrogata l’anacronistica disposizione transitoria e finale numero XIII, 2° comma, della nostra Costituzione Repubblicana. L’evidenza dei fatti è di una Repubblica che si dimostra ogni giorno di più assente. Molteplici sono le motivazioni che inducono, ancora oggi, molti esponenti della cultura e della politica a dichiararsi contrari a quella abrogazione della citata norma costituzionale “transitoria e finale”. Ma è da sottolineare che è vero quanto dichiara un noto liberale che la storia la scrivono i vincitori, nel nostro caso gli storici repubblicani.


Tra questi motivi si afferma che i Savoia ed il Regno di Sardegna hanno colonizzato il meridione d’Italia. Non vi è alcunché di più falso e fazioso:
1. Innanzitutto il popolo meridionale che “tanto bene viveva” sotto il Regno Borbonico delle Due Sicilie nulla ha fatto, o quasi, per difendere il suo “povero” monarca assoluto (cioè non liberale) dall’aggressione garibaldina e piemontese, anzi molti meridionali si sono uniti alle camicie rosse nella lotta di liberazione, si pensi al siciliano Francesco Crispi.
2. I Borboni non contenti hanno fomentato, insieme con gli ambienti clericali del meridione, e non solo, le popolazioni, che vivendo nell’indigenza e nell’analfabetismo erano facilmente influenzabili, contro il neonato Stato Unitario. Ciò ha favorito la cultura alla violazione delle leggi dello Stato che ancora oggi mostra i suoi gravissimi effetti (si pensi al contrabbando del tabacco). Per non parlare di quel brigantaggio ottocentesco sotto la tutela dei preti di campagna, che successivamente si è trasformato in organizzazioni mafiose e camorristiche nate proprio dal rifiuto dello Stato Unitario, astio che certamente ignoranti banditi non potevano avere se non ispirati da forze anti-unitarie.
3. Tra le critiche ricorrenti vi è quella dell’unificazione del debito pubblico: il Regno di Sardegna era fortemente indebitato e sanò il suo bilancio grazie alle riserve auree dello Stato Borbonico. Sennonché, l’unificazione dei due Stati non poteva non comportare anche quella dei rispettivi bilanci; si pensi a quel che avrebbero detto i Soloni meridionalisti se i due bilanci fossero stati mantenuti separati: avrebbero gridato alla colonizzazione. Inoltre, bisogna riconoscere che il Regno delle Due Sicilie, aveva una corte sfarzosissima, a spese dei poveri contadini che ne erano tartassati (senza ricevere alcunché in cambio) con la tassa sul grano, mentre i latifondisti li sfruttavano. Il Regno di Sardegna invece era chiaramente indebitato a causa delle tre guerre di indipendenza, per liberare il Lombardo-Veneto dal giogo degli austriaci. Altra monarchia assoluta come quella borbonica. Infatti, per pagare i debiti lo Stato Unitario dovette cedere la regione tanto cara alla casa regnante: la Savoia, e Nizza la città natale dell’Eroe dei due Mondi. Altro che unificazione dei bilanci…
4. La Monarchia Sabauda non è mai stata accettata dai privilegiati dello status pre-unitario: la Chiesa cattolica prima tra tutti, e soprattutto dopo il XX Settembre 1870 allorquando si pose termine al suo potere temporale. È ovvio che gli sconfitti dovessero cercare una rivalsa. Infatti verso la fine del XIX secolo, il Segretario di Stato pontificio, cardinale Rampolla dichiarò che “la Chiesa poteva intendersi meglio con una Repubblica piuttosto che con il Re”. Infatti, in Italia, la cui unità ormai non era più in discussione con il nuovo papa Leone XIII, si riteneva non poter coesistere due monarchi: il pontefice ed il Capo dello Stato Unitario. E così è stato.
5. L’accusa che fa più effetto nella pubblica opinione è giustamente quella che coinvolge Re Vittorio Emanuele III e i suoi rapporti con il fascismo. Ma ci si dimentica di sottolineare come il fascismo era gradito alla grandissima maggioranza degli italiani a cominciare dal papa Pio XI che appellò il duce Benito Mussolini come “l’uomo della Provvidenza” all’indomani del famoso Concordato del 1929. E dimentichiamo troppo spesso che fu lo stesso Re a far arrestare il duce il 25 Luglio del 1943, certo con gravissimo ritardo.
6. Per quanto riguarda le leggi razziali, esse erano comuni a quasi tutta l’Europa continentale, ed anche gli USA avevano leggi liberticide contro i neri, i pellerossa, ecc.; e i britannici non erano certo molto democratici con i nativi delle loro colonie. Inoltre, tali leggi erano discriminatorie, ma non prevedevano campi di concentramento, camere a gas, deportazioni ecc., che purtroppo esse hanno favorito.
7. Inoltre, non credo che i Savoia siano stati più colpevoli di Benito Mussolini, anzi. Ed in questo si nota l’acrimonia di molti politici del 1946: socialisti, democristiani (i clericali, non tutti i DC), comunisti, azionisti. L’esilio imposto ai discendenti maschi di Casa Savoia avrebbe dovuto estendersi anche ai discendenti maschi di Mussolini, alcuni dei quali avevano partecipato attivamente al regime ed hanno contribuito alla costituzione del MSI, in violazione alle stesse norme costituzionali “transitorie e finali”, e non solo.
8. Infine, qualcuno ha affermato che lo Stato Unitario era sentito estraneo dai meridionali: come si spiega allora che in occasione del Referendum del 1946 le regioni che più di tutte votarono a favore della Monarchia furono la Campania e la Puglia, più ancora del Piemonte? Si consideri che al Governo del Paese all’epoca vi erano soprattutto repubblicani (Togliatti, Nenni, Parri, ecc.).
9. Purtroppo, oggi molti hanno dimenticato ciò in realtà si diceva in quegli anni: “Bisogna cacciare lo straniero dall’Italia. Spagnoli, austriaci, francesi…”.

Ai Savoia, probabilmente, non si è mai perdonato di avere introdotto in Italia la LIBERTÀ ed il parlamentarismo contro i regimi assolutisti: pontificio, borbonico ed austriaco.

martedì 14 dicembre 2010

Italia 2011, polvere di patria

Italia 2011, polvere di patria

di Walter Barberis
03 ottobre 2010

Lo spirito nazionalistico del 1911 e l'ottimismo del 1961 sono scomparsi. Più che alla celebrazione, i 150 anni dell'Unità invitano alla riflessione.A sei anni dalla prima edizione torna in libreria il saggio di Walter Barberis Il bisogno di patria (Einaudi, pp. 141, e10). Anticipiamo uno stralcio della nuova introduzione.

I prossimi mesi saranno verosimilmente testimoni di una ricorrenza di parole orientate a ricordare l'anniversario dei 150 anni dell'unità d'Italia. Fra queste parole, patria, come sinonimo di comunità nazionale, magari con qualche scivolamento verso un nuovo concetto di cittadinanza, potrebbe riprendersi un certo spazio nel discorso pubblico.


È ovvio che le celebrazioni comportino il rischio di un uso retorico della lingua; ed è più che probabile che significati ormai desueti di un termine come patria possano cumularsi insieme a una più aggiornata connotazione di senso. Certo è che il 2011 non potrà ripetere intonazione e contenuti dei discorsi celebrativi diffusi nel 1911 o in occasione del centenario del 1961.

Semplicemente, la nostra epoca non è in sintonia né con gli ardori dello spirito nazionalistico e dinastico che segnò gli anni che precedettero la Prima Guerra mondiale, né con l'ottimismo degli anni del boom economico e della trasformazione degli italiani in fiduciosi neofiti di una società dei consumi. Anzi, i nostri sono tempi in cui pare serpeggiare un accentuato disincanto nei riguardi di un discorso pubblico che faccia leva su sentimenti di appartenenza a una comunità nazionale.
Questo esplicito scetticismo riverbera, semmai, la tendenza a rivalutare quelle dimensioni e tradizioni locali che a non pochi padri della patria erano parsi i limiti di una compiuta unità istituzionale. La cinta municipale e l'ombra corta del campanile sempre più di frequente tornano a definire l'area degli sguardi individuali e il raggio d'azione di interessi particolari e privati; è logica conseguenza che ne soffra quella visuale di più lunga gittata, cioè nazionale e sovrannazionale, che pareva fino a pochi anni or sono una acquisizione scontata.

D'altra parte, ogni epoca interroga il passato con la richiesta di una risposta utile al presente, o in ogni caso consonante con lo spirito del tempo. E oggi corre il tempo in cui conciliazione, condivisione e concertazione sono termini d'uso corrente, a significare soprattutto che, a partire dai principali attori politici ed economici fino ai corpi sociali più periferici, gli elementi di divisione e di discordia sono spesso prevalenti su quelli connettivi ed inclusivi. Dunque, è assai probabile che il richiamo alla data fatidica del 1861 non infiammi i sentimenti dei più; e che allora, auspicabilmente, si presti almeno ai toni della riflessione se non a quelli della celebrazione.

Non è un mistero, peraltro, che il corso di questi 150 anni di esperienza unitaria sia stato ricco di acquisizioni, ma anche segnato da fenomeni antichi e recenti che non hanno veramente cooperato alla formazione di una coscienza pubblica e nazionale. Fin dagli anni cruciali che hanno inaugurato l'unità, lo Stato italiano ha dovuto fronteggiare qualcosa di più forte di una semplice controversia sulla forma di governo. Del disagio a sottostare a una nuova istituzione centrale sono state sintomatiche ed esemplari le insorgenze nel Mezzogiorno, parte aurorale di una «questione meridionale» che ha attraversato tutto il Novecento come una formula rituale.

Per altri versi, la grande industria, quella che aveva portato l'Italia fra le prime cinque potenze del mondo, si è gradualmente dissolta; e con essa è scomparsa la grande fabbrica fordista, il luogo imponente che aveva affiancato nel lavoro milioni di persone, convenute dai quattro angoli della Penisola in quel Nord che aveva fisicamente e culturalmente contribuito alla integrazione di italiani diversi. Ora, le mille piccole e medie imprese, che sono la base virtuosa e l'ossatura forte della nostra economia, sono anche la manifestazione di un capitalismo pulviscolare che non agisce più come decisivo fattore aggregante.

Come nuovi pionieri, i produttori delineano traiettorie individuali, tratteggiano la mappa di interessi puntiformi, costituiscono i nodi di una rete estesa, dinamica, ma non inclusiva. In questa rete, oggi, rimangono impigliati i più fortunati fra coloro che vengono in Italia a cercare strade nuove. E sono proprio questi nuovi soggetti a ricordarci che la storia italiana è stata anche storia di migranti: quei 29 milioni di uomini e donne, che hanno lasciato città e paesi del Nord e del Sud in poco meno di un secolo, spesso riscoprendo la loro italianità giusto al momento di integrarsi in una comunità d'origine in terra straniera. Sono loro, le loro memorie e le loro storie di vita a cui forse dovremmo guardare oggi, ripensando alle modalità di accoglienza dei nuovi immigrati e alle nuove frontiere di una adeguata, comune cittadinanza. Su questo difficile terreno, spesso, è parsa camminare più speditamente la Chiesa. Ma a sua volta, la Chiesa, il soggetto più radicato nel tessuto plurisecolare della storia italiana, è tornata ad essere fonte o occasione di ulteriori contrasti.

Non a caso, tuttavia, questa che viene avvertita come una esorbitanza dai confini della propria sfera di azione da parte della Chiesa è l'occupazione di spazio che fino a non molto tempo fa era quello della politica: lo spazio dei partiti, vituperati senza superarne lo spirito di fazione, sostituiti da nuove formule organizzative ed elettorali, e già rimpianti. In effetti, sciolti in generiche correnti di opinione, nebulose e dagli incerti riferimenti morali, quei partiti hanno lasciata ineguagliata la capacità di riferirsi a tradizioni e insieme a prospettive di futuro. Quello spazio pubblico e aperto, quella piazza, spesso fisica, con il suo selciato e le sue quinte architettoniche, era il luogo del confronto pubblico, e naturalmente dello scontro: ma lì gli italiani, divisi dalle opinioni e dalle scelte di campo, erano però uniti da analoghe pratiche di partecipazione e da un comune interesse per la cosa pubblica, dalla stessa voglia di un domani, per quanto orientato a soluzioni diverse. Quello spazio politico è stato un luogo di avvicinamento, dove le passioni si sono lambite favorendo l'incontro e il confronto fra le persone.

In una Italia toccata in profondità dalla sua inclinazione a frammentarsi, a dividersi in fazioni fino a polverizzarsi, la dissoluzione di quello spazio ha lasciato dietro di sé l'indifferenza dei più, la privatezza delle prospettive, l'operatività apparente e virtuale della piazza televisiva. È un dato di fatto che negli ultimi anni, i lampi di una coscienza nazionale, il senso di appartenenza a una comunità, siano apparsi raramente, in occasione di una importante manifestazione sportiva o nella contingenza di qualche avvenimento luttuoso. Lasciando la parola «patria», non senza vaghezza, a echeggiare distratte forme di solidarietà alle nostre forze armate, impegnate su fronti di guerra in inedite missioni umanitarie e di peacekeeping.

Come figli di una famiglia senza armonia e senza memorie, gli italiani si sono spesso cresciuti da soli, superando la solitudine con cinismo, con opportunismo, con diffidenza, talvolta con esibizionismo. Ignorando le ragioni e l'utilità di una salvaguardia dell'interesse generale. È così che l'idea di patria si è di volta in volta caricata di significati che invece di tendere all'unità hanno accentuato visioni faziose, volte all'esclusione. Oppure è stata un'idea semplicemente rifiutata, rimpiazzata da snobistici atteggiamenti di eccentricità, di distanza dai comportamenti di altri popoli e di altri Paesi. Come se la mancanza di un'idea di comune appartenenza fosse un sicuro vantaggio, di per sé un requisito di modernità. Come se non contassero antiche comunanze di lingua, di religione, di arti, di letterature, di industrie; oppure, come se evadere il fisco, sottrarsi ai doveri civici, vivere di raggiri della norma e dei codici fossero altrettante prove di avanzamento civile.

Tratto da : www.lastampa.it/

lunedì 13 dicembre 2010

Esami di Storia

Esami di Storia

30 marzo 2010

Dispiace che un bravo giornalista come Pino Aprile, per molti anni a capo di testate importanti, da “Oggi” a “Gente”, collaboratore di Sergio Zavoli nella sua famosa inchiesta “Viaggio nel Sud”, ed alla messa in onda di rubriche di apprendimento come “TV7” ecc., ha “sposato”, come tanti, la causa di un revisionismo anti-risorgimentale ed anti-sabaudo che, purtroppo, ben conosciamo e con il quale ci confrontiamo da lustri!
Nel suo ultimo saggio, “Terroni” – Piemme edizioni – il dottor Aprile, pugliese, accomuna l’esercito piemontese ai nazisti della strage di Marzabotto, ai marines delle operazioni più discusse in Iraq, assimilando le popolazioni meridionali post-unitarie agli Ebrei “travolti dall’Olocausto”, arrivando a contabilizzare in un milione di persone, le vittime dell’esercito italiano nel Mezzogiorno!!!!


Ed ancora: “Una parte dell’Italia, in pieno sviluppo, fu condannata a regredire e depredata dall’altra, che con il bottino finanziò la propria crescita e prese un vantaggio, poi difeso con ogni mezzo, incluse le leggi…Il Sud fu unito a forza, svuotato dei suoi beni e soggiogato, per consentire lo sviluppo del Nord…E non avrei immaginato che i Mille fossero quasi tutti avanzi di galera…Che il Regno delle Due Sicilie fosse, fino al momento dell’aggressione, uno dei paesi più industrializzati del mondo, terzo, dopo Inghilterra e Francia…”, e tanti altri “non sapevo” per accusare il Nord di ogni nefandezza politica, sociale, economica, morale ai danni del Sud.
Sarebbe ripetitivo ribattere personalmente al dottor Aprile, in quanto ho divulgato in questi anni  dati e fatti inconfutabili sull’arretratezza del Regno borbonico, il quale, terza potenza mondiale, collassò velocemente in poche settimane…
Mi affido alla risposta del dottor Mario Cervi, già collaboratore di Montanelli, giornalista, storico, il quale dalle colonne del “il Giornale” ricorda al collega che “ogni anno dal Nord arrivano al Sud ben 50miliardi di euro, domandandosi poi come un progressista come l’Aprile possa difendere uno Stato ove i cardini erano “Trono ed Altare”; porre sotto accusa l’amministrazione piemontese che giunse nel Mezzogiorno – continua Cervi – è fuorviante, in quanto oggi la maggioranza dei burocrati che amministra l’Italia è meridionale, ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti”.
Affermare, aggiungo,  che i Mille erano degli “avanzi di galera” mortifica una delle pagine più gloriose della nostra storia, quella che vide nei giorni precedenti il 5 maggio 1860 radunarsi a Villa Spinola, nella capitale ligure, centinaia di volontari, nella maggior parte giovani, provenienti da tutta l’Italia settentrionale, tra di loro il 69enne genovese Tommaso Parodi e l’undicenne Giuseppe Marchetti di Chioggia. Nello specifico i  1.089 che sbarcarono a Marsala risultavano così suddivisi per provenienza regionale: 435 lombardi, 163 liguri e nizzardi, 151 veneti, 11 trentini, 1 altoatesino, 21 friulani, 29 piemontesi, 39 emiliano-romagnoli, 82 toscani, 5 umbri, 11 marchigiani, 9 laziali, 1 abruzzese, 17 campani, 18 calabresi, 4 pugliesi, 1 lucano, 42 siciliani e 3 sardi.
Per metà erano operai, il resto studenti, professionisti, artigiani. La città che diede più volontari fu Bergamo, seguita da Genova, Milano, Brescia e Pavia. Partirono verso l’ignoto con l’entusiasmo sciagurato delle grandi imprese, contro il più antico ed esteso Stato della Penisola con 9 milioni di abitanti,  una capitale, Napoli, la più popolosa dell’Italia ma anche la più miserabile. Miseria ed analfabetismo erano le prime credenziali del Regno borbonico, ove le masse contadine erano abbruttite e sfruttate, con un poverissimo proletariato urbano, con una borghesia ed una nobiltà parassitarie, sorde ed arroganti, ove la vivace e colta “intellighenzia” era stata costretta al silenzio ed all’esilio dal Governo. Queste, purtroppo, caro dottor Aprile le inconfutabili verità della Storia, quella con la “S” maiuscola.
Il nostro voto non può essere che negativo per un’opera che vuole essere saggio e divulgazione storica, ma già letta ed arciletta, insomma un bel compitino copiato: voto 3.

Biblioteca storica Regina Margherita
Petramelara (CE)
Il Direttore Giuseppe Polito