Finalità di questo Blog

Lo scopo di questo Blog "150° Unità d'Italia" è quello di raccogliere tutte le informazioni relative all'evento, e denunciare il tentativo di strumentalizzare la Storia ai fini anti italiani, così come denunciare l'impegno Istituzionale nel far passare questo importante traguardo il più inosservato possibile.

giovedì 29 dicembre 2011

150° Anniversario della Proclamazione del Regno d’Italia

150° Anniversario della Proclamazione del Regno d’Italia


Terminato l’anno 2011, chiuderemo il presente Blog come era nelle nostre intenzioni, che, nato in Agosto del 2009, aveva lo scopo di raccogliere quanto possibile ed interessante circa l’importante anniversario del 150 ° della proclamazione del Regno d’Italia.
Esso rimarrà comunque aperto alla lettura, ma non più aggiornato se non eccezionalmente.

Dobbiamo scrivere che è stato un notevole successo divulgativo, totalizzando in 16 mesi, più di 20.000 visite con oltre 38.000 pagine lette. Soltanto a cavallo della settimana del 17 marzo 2011, festa nazionale, abbiamo avuto un picco di interesse di circa 2.500 visite con 4.500 pagine lette ! 

Il nostro rammarico semmai, va alle celebrazioni stesse, che non hanno smentito le nostre più pessimistiche previsioni sull’argomento.


Il 150° Anniversario dell’Unità Italiana infatti, falsificando la storia sin dal “titolo”, che vide l’Unità italiana raggiunta soltanto nel 1918 al termine della grande guerra, ben 57 anni dopo, il regime repubblicano attuale ha voluto allontanare forse per sempre lo il peso, l’ingombro e il terrore di dover ricordare l’operato e la gloria della Dinastia che l’Italia creò 150 anni fa, riunendo sotto la propria bandiera gli stati regionali precedenti. Casa Savoia.
Nessun erede di questa dinastia è stato ufficialmente invitato ad uno dei numerosi appuntamenti approntati dalle istituzioni, così come i Sovrani e le Sovrane ancora sepolti in terra straniera hanno potuto prendere il posto che gli spetta al Pantheon di Roma.
È stato così compiuto l’ultimo distacco, quello definitivo, tra l’attuale Italia degli scandali e delle crisi di valore, dall’Italia sacra della nostra gloriosa storia secolare, Il prossimo appuntamento infatti, il prossimo anno, tra 10 o tra 50 soprattutto, potrà “contare” esclusivamente su una popolazione “ripulita”, ignorante, non informata o peggio mal informata, che riconoscerà nell’Italia repubblicana, l’unica Italia che ha sempre conosciuto.

Personalmente è per me una grande sconfitta, peraltro prevista nel momento stesso in cui decisi di scendere in campo per combattere questo malcostume, ma sono orgoglioso d’essermi battuto al massimo delle mie possibilità, per lasciare almeno nei miei giovani figli un segno. Questo segno potrebbe un giorno riaffiorare nella loro memoria, e germogliare ! Speriamo davvero !!!

Cosa dire delle “molteplici”quanto disarticolate manifestazioni approntate su tutto il territorio nazionale ? Come abbiamo già scritto sopra, nessuno degli appuntamenti nazionali, ha visto la partecipazione ufficiale di un rappresentante di Casa Savoia, così come le Istituzioni stesse hanno preferito attendere in latitanza fino al 2010 inoltrato l’inizio delle manifestazioni stesse.
Queste infatti sono iniziate soltanto in concomitanza del 150° anniversario della partenza dei garibaldini da Quarto nel maggio del 2010. Certo dovendo occultare l’impegno ed i meriti di un piccolo Re Sabaudo,.non si poteva avviare prima il processo dei festeggiamenti, ricordando al popolo italiano i fatti del 1859 !
Meglio sono andate le decine di manifestazioni locali, soprattutto quelle delle località più piccine e radicate nelle loro tradizioni, come nel meridione del nostro Paese, che hanno tenuto in debito conto la storia, non il politicamentecorretto in voga oggi.
I generale però, nulla di istruttivo o utile a creare una forte identità nazionale. Comunque si cerchi di valutare questa vergogna, pro o contro l’Italia unificata, pro o contro la monarchia Sabauda unificatrice, ci ha rimesso soltanto la storia del nostro Paese, e quindi il peso dei valori nazionali che ogni giorno, ognuno di noi porta per il mondo quale bagaglio personale.

Male poi, anzi molto male, noi del mondo monarchico strettamente delimitato. Non siamo riusciti ad organizzare nulla che, anche per un solo giorno abbia richiamato a livello nazionale, l’attenzione dei media su di noi e la causa che abbiamo a cuore : La monarchia !

Dabbenaggini quali la questione dinastica agitata da gruppi e gruppuscoli, immobilismo generale e altre antiche gelosie interne all’ormai ristrettissimo gruppo di “fedeli” monarchici italiani hanno impedito una apparenza di unità, di fronte comune, nel momento migliore per tornare a proporci ad un popolo, che ormai, non solo non ci ricorda più, ma che, in massima parte, non sa neppure che siamo esistiti.

A fronte di questo, appare davvero ininfluente l’impegno che molti di noi continuano a profondere nella causa, e viene da chiedersi perché si continui a giocare una partita senza speranza apparente, persa diversi decenni fa, quando ancora avevamo un Re, ma già l’avevamo lasciato solo in preda ai nostri egoismi e interessi meschini !

Difficile dare una spiegazione a tanta miopia.
La bella medaglia proposta dall’amico Franco Ceccarelli e realizzata in extremis da alcune organizzazioni monarchiche riunite (Allenaza Monarchica, Movimento Monarchico Italiano e Guardie d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon) ad esempio, sono però una risposta chiara dell’evidenza che, un buon lavoro tendente ad aggregare, non può che portare ad un buon risultato, così come l’encomiabile iniziativa di divulgazione di “Monarchici in Rete” dell’Amico Roberto Tomao.
Cosa avremmo potuto fare e dimostrare quest’anno se avessimo lavorato tutti sullo stesso spartito ?
A nostri posteri, l’ardua sentenza !

Ai lettori di questo sito, i nostri migliori auguri per l’anno che verrà, così come i nostri migliori auguri alla nostra povera Patria, nella speranza che possa sopravvivere ancora, testimoniando nel mondo nonostante questa repubblica, la storia, la cultura, e la civiltà del nostro popolo !
Grazie.

29 dicembre 2011
Alberto Conterio

domenica 9 ottobre 2011

Madame Angela Pellicciari demasquee

Madame Angela Pellicciari demasquee
Smascherata la posizione di falsa revisione storica di Angela Pellicciari.

8 ottobre 2011

Abbiamo esattamente riportato il riferimento, in francese, così come pubblicato in occasione della presentazione di un libro di Alexandre Dumas, assai interessante. 
L'autore narra avvenimenti e situazioni vissute in prima persona, tra il 1860 e il 1863, quando si trovava a Napoli, nel momento storico di passaggio tra il regime borbonico, l'arrivo di Garibaldi e l'unione del Sud al Regno d'Italia. Dumas fu nominato responsabile delle attività culturali del governo provvisorio e creò anche un giornale: L'INDIPENDENTE. 


La presentazione di questo libro, dal titolo forte (La camorra ed altre notizie sul brigantaggio Edizioni La Librairie Vuibert, 416 p., 19 Euro, acquistabile presso le librerie francesi)  è il risultato di una serie di manoscritti inediti, in italiano e in francese,  trovati per caso.
Ne è scaturito un interessante libro-documento presentato, a Nizza, dal gruppo "Antica Contea di Nizza". Nell'occasione si è fatto riferimento a tale Angela Pellicciari che ha pubblicato, con la Casa Editrice Ares di Milano, due libretti che non hanno nulla a che vedere con una seria revisione storica di fatti e avvenimenti che possono riguardare  il nostro Risorgimento Nazionale.
In effetti la nostra disinvolta autrice si è semplicemente lanciata nello sport nazionale più di moda:  sputare ingiurie nei confronti di Casa Savoia, del Piemonte Sabaudo e della Monarchia.
Dai suoi scritti emergono affermazioni unilaterali, senza prove, che riguardano soprattutto la provocatoria iniziativa di rappresentare il reame di Napoli come uno stato ideale: colto, pacifico, ricco, senza problemi ed attaccato dalle "orde" piemontesi che lo avrebbero  ridotto ad una landa desolata. La realtà è ben diversa. Dagli scritti inediti di Alexandre Dumas emerge come il brigantaggio e la camorra esistessero  sin dai tempi dei  Borbone che, anzi,  avevano ben inserito queste due realtà nell'organizzazione dello Stato.
Testimonia e scrive Alexandre Dumas: "Il Re Ferdinando II era il vero capo della camorra. Sotto il suo Regno, tutti rubavano. Il Re Borbone lasciava rubare e lui stesso dava l'esempio, in certi casi, rubando a piene mani".  Era presente alla manifestazione l'Avv. Massimo Mallucci, Segretario Nazionale di Alleanza Monarchica, che ha dovuto, purtroppo denunciare come, in Italia, siano stati dati spazi e patrocinii ufficiali a questa disinvolta signora che, tra l'altro, durante le sue rappresentazioni non ammette confronti di idee.
Purtroppo, nel corso di questo anno, tale persona, che proviene dall'estremismo della sinistra sessantottina,  è stata sostenuta da movimenti  cattolici come Comunione e Liberazione e i Neo Catecumenali, ottenendo patrocinii da "Curie Vescovili" nonchè da società che si fregiano del titolo di "Ente Morale", ottenuto durante il periodo del Regno d'Italia, come la Società Economica di Chiavari.

sabato 17 settembre 2011

Il debito pubblico alla proclamazione del Regno D’Italia


150° Anniversario
Il debito pubblico alla proclamazione del Regno D’Italia
Nel 1861 venne gestito con lungimiranza

di Maurizio Lupo
5 luglio 2011

Venerdì 5 luglio 1861 il Senato, su proposta del ministro delle Finanze Pietro Bastogi, approva con 68 voti favorevoli e 4 contrari l’istituzione del «Gran Libro del debito pubblico del Regno d’Italia». Riunirà i debiti pubblici di tutti gli stati pre unitari.
La Camera completerà l’iter di approvazione il 10 luglio. A questa legge farà seguito, il 4 agosto 1861, quella «di unificazione dei Debiti pubblici d’Italia». Assommano a 2.400 milioni di lire, pari a oltre 10 miliardi e mezzo di euro odierni.
Lo Stato con maggiore debito pubblico era il Regno di Sardegna, con 1.300 milioni, spesi in opere strutturali e in spese militari necessarie alle imprese risorgimentali.
Il Regno delle Due Sicilie si presenta con 730 milioni di debito pubblico: 520 delle province napoletane e 210 di quelle siciliane.
Segue il Granducato di Toscana, con 140 milioni. La Lombardia ne ha 150, le province pontificie annesse ne hanno in tutto 31: 19 milioni la Romagna, 7 l’Umbria e 5 le Marche. Il Ducato di Modena entra in Italia con 18 milioni di debiti e quello di Parma con 12. Con questa contabilità in mano il governo di Ricasoli deve pianificare il domani. Ha deciso di seguire la rotta tracciata da Cavour. La neonata Italia insisterà nelle spese strutturali. Spenderà per realizzare tratte ferroviarie e rafforzerà esercito e marina.
Diventeranno le colonne per unire il Paese e tutelare la sua sicurezza e indipendenza.

Tratto da : http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/blog/hrubrica.asp?ID_blog=332


Osservazioni

Questo articolo di Maurizio Lupo, per certi versi è davvero illuminante. Intanto stabilisce che anche la peggiore politica pre unitaria in Italia, non era riuscita ad accumulare il debito imponente che ha “prodotto” la repubblica italiana negli ultimi 30 anni, poi serve a zittire una volta per tutte alcuni pseudo intellettuali del sud, definiti duosiciliani, che vorrebbero ricchissimo il Regno loro, depredato per sanare i debiti altrui. Ci sembra evidente infatti che un debito di 730 milioni di lire per un Paese che negli stessi anni, non aveva speso un centesimo in infrastrutture e non aveva dovuto pagare nessun costo di guerra, fosse un debito enorme e scandaloso, altro che potenza mondiale !

martedì 6 settembre 2011

L’Italia unita? Era nel salotto di Margherita


L’Italia unita?
Era nel salotto di Margherita

di Francesco Perfetti
29 luglio 2011

Il primo successo di Margherita di Savoia, come Regina, fu la conquista del cuore di Giosué Carducci. Era salita al trono il 9 gennaio 1878 quando il marito (e cugino) aveva assunto, con il nome di Umberto I, la successione del padre, Vittorio Emanuele II, il «Re galantuomo». I sovrani, qualche mese dopo, avevano iniziato un lungo viaggio in Italia e ovunque avevano riscosso manifestazioni di simpatia ed entusiasmo a riprova dell’avvenuta «nazionalizzazione» della dinastia a pochi anni dalla compiuta unità nazionale. A Bologna il poeta anticlericale e repubblicano rimase colpito dalla regina: la vide una prima volta, nel pomeriggio, mischiato tra la folla. La rivide la sera, affacciata a una finestra. La incontrò, infine, a un ricevimento dov’ella gli apparve «con una rara purezza di linee e di pose nell’atteggiamento e con una eleganza semplice e veramente superiore sì nell’adornamento gemmato sì del vestito largamente cadente».


La «conquista» del cuore del poeta ribelle - presto sancita dai versi dell’ode carducciana Alla Regina d’Italia - fu anche, e prima di tutto, un successo politico per una sovrana che in poco tempo avrebbe rinnovato la vita della corte sabauda aprendola alla mondanità e alla cultura e contribuendo al radicamento della dinastia nel Paese. Accanto a una sua corte - che, per la prima volta nella storia millenaria dei Savoia, raccoglieva dame avvenenti e colte provenienti da tutto il regno - ella costituì un più ristretto salotto intellettuale, quasi un «circolo della regina», frequentato assiduamente da uomini di cultura con i quali poter discutere liberamente di arte, letteratura, filosofia.
Alla corte di Margherita si ritrovarono le celebrità del tempo, prevalentemente aristocratici ed esponenti dell’alta borghesia, ma anche uomini divenuti famosi per il loro contributo alle arti e, in qualche caso, per la carriera politica. Tra gli habitués, tutti o quasi di orientamento conservatore, vi erano filosofi e uomini pubblici come Terenzio Mamiani e Ruggero Bonghi, scrittori di cose storiche come il marchese Francesco Nobili Vitelleschi, collezionisti come Marco Baracco e, primo fra tutti, animatore e stella del salotto, Marco Minghetti. Proprio quest’ultimo, lo statista bolognese allievo di Carducci, divenne il confidente della regina, l’uomo che la consigliava e indirizzava nella scelta delle letture e, infine, il privato insegnante di latino. Il carteggio tra la sovrana e il suo mentore - ora pubblicato in una bella edizione critica a cura di Carlo Maria Fiorentino con il titolo Alla corte della Regina. Carteggio fra Margherita di Savoia e Marco Minghetti (Le Lettere, pagg. 222, euro 22) - documenta questo intenso rapporto intellettuale, durato dal 1882 al 1886, fra due anime che s’intendevano appieno. E ciò malgrado la differenza d’età, di preparazione culturale e, in certo senso, di estrazione sociale, perché Minghetti che, pure, era diventato un professore illustre e uno statista di primo piano, proveniva da una famiglia di origine popolana arricchitasi ai tempi di Napoleone.
Minghetti fu tra i primi frequentatori, al Quirinale, del salotto pomeridiano e serale della regina, ma, quando questa decise di imparare il latino, a quelle visite si aggiunsero le quasi quotidiane lezioni mattutine che dovettero contribuire a far sorgere, tra i due, quel grado di confidenza e di intimità intellettuali delle quali è traccia nel carteggio. E delle quali una ulteriore conferma si trova nelle parole commosse cui Margherita - nota per la riservatezza e la prudenza - si lasciò andare comunicando a un’amica carissima il suo dolore per la scomparsa di Minghetti: «mi pare ancora impossibile che non debba più vederlo la mattina, come da vari anni ero abituata, ed era un’abitudine dolcissima, perché è difficile sentire parlare in modo più elevato senza nessuna pedanteria ed in una maniera che ogni parola era una luce del cuore e della mente».
Il carteggio fra i due rivela come l’anziano statista non si preoccupasse solo, e con grande scrupolo, di guidare la sovrana nell’apprendimento della lingua e della letteratura latina, ma anche, come ha ben osservato Fiorentino, «di orientarla in maniera più ampia culturalmente e politicamente in una direzione che avrebbe dovuto coincidere con i valori della civiltà liberale moderata non soltanto italiana».
Non solo. Minghetti cercò anche di stemperare l’entusiasmo che la regina manifestava nei confronti di quel Carducci, già ferocemente repubblicano e ora filocrispino, che era stato conquistato dal suo fascino, dall’«eterno femminino regale».
Un’amicizia profonda, dunque, tra Minghetti e Margherita. Un’amicizia che fu tutta e solo intellettuale, ma che, man mano che si rafforzava, finì probabilmente per muoversi lungo il crinale di un sentimento che avrebbe potuto avere altri esiti. E certe allusioni di Margherita, contenute nelle sue lettere, lo lascerebbero pensare: la notazione, per esempio, sulla differenza di età di una coppia di diplomatici (37 anni, superiore a quella esistente tra lo statista e la regina) o, ancora, il riferimento al Quirinale come a una «gabbia dorata» nella quale ella faceva «la parte dell’uccello che canta e fa vedere le sue penne colorate». Se esiti diversi da una amicizia solo intellettuale non si ebbero ciò fu dovuto, probabilmente, al fatto che Minghetti era troppo fedele servitore del re per fargli un torto, mentre, dal canto suo, Margherita, pure affettivamente allontanatasi dal marito, si sentiva troppo investita dei doveri, anche di rispettabilità, connessi al suo ruolo di sovrana.
Il carteggio fra Minghetti e Margherita offre un ritratto psicologico, oltre che intellettuale, della regina, mettendone in luce gusti, preferenze culturali, intelligenza, interesse per le cose politiche. Ma anche, soprattutto per quel che riguarda proprio la politica, un riserbo dovuto al fatto che ella riteneva che in scelte e decisioni di tal natura contava solo la parola del re. Il «circolo» di Margherita, del quale Minghetti era frequentatore e protagonista, non assunse mai una valenza superiore a quella di un circolo puramente intellettuale. A differenza di quanto avrebbe fatto, in seguito, Maria José, la quale pure raccolse attorno a sé una corte di intellettuali illustri - da Indro Montanelli a Carlo Antoni, da Manlio Lupinacci a Umberto Zanotti Bianco - con i quali ebbe modo di intessere un discorso culturale, sì, ma anche e, forse, soprattutto politico. Ma i tempi, in fondo, erano cambiati. E l’età umbertina era ormai un ricordo lontano.

lunedì 5 settembre 2011

venerdì 24 giugno 2011

Conquistatori ma liberatori - I Savoia nel Risorgimento

Conquistatori ma liberatori
I Savoia nel Risorgimento

La lettera del giorno
17 giugno 2011

Voglio proporre un problema divenuto attuale nel corso del dibattito sull’unità italiana: quello del ruolo del Piemonte nel processo unitario, visto da un meridionale quale sono. Il desiderio dei Savoia di conquistare l’Italia data dalla prima metà del ’700. Senta che cosa scriveva De Brosses intorno al 1740 di Carlo Emanuele: «Non è abbastanza forte da annettersi tutto il Paese (l'Italia), ma va espandendosi a poco a poco; suo padre, il re Vittorio, usava dire che l’Italia è come un carciofo, da mangiarsi foglia per foglia». Tutto ciò non vuole dire, ovviamente, che oltre un secolo dopo l'intenzione del Piemonte fosse ancora quella di annettersi alcune province, e non, come si sostiene oggi, la volontà di creare uno Stato nazionale unitario; tuttavia rimane il dubbio che quella che oggi chiamiamo un’epopea di liberazione dallo straniero iniziasse in realtà come una guerra di conquista e solo dopo diventasse quello che poi effettivamente fu. Aggiungo però che, quale che fosse l’intenzione, il risultato rimane grande.

Ignazio Vesco


Risponde Sergio Romano

Nelle tradizioni e nelle intenzioni dei Savoia, il Risorgimento fu anche guerra di conquista.
È stata questa, del resto, per molti secoli, la filosofia politica degli Stati europei. L’estensione del proprio territorio e l’acquisizione di nuove province erano considerate una legittima ambizione e un titolo di gloria per quasi tutte le dinastie regnanti. Sarebbe inutile negare quindi che Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II abbiano visto nella causa dell’unificazione italiana l’occasione per realizzare ambizioni che appartenevano alla storia del casato. Ma commetteremmo un errore se non tenessimo conto di alcuni fattori che rendono i Savoia alquanto diversi da altre dinastie dell’epoca. Lo Statuto di Carlo Alberto non fu la sola costituzione del 1848, ma non venne revocato, come accadde in molti altri casi, dopo l’ondata restauratrice del 1849. Fu certamente una costituzione elargita dall’alto che consentiva al sovrano di nominare il Primo ministro senza tenere alcun conto delle indicazioni del Parlamento, come nel Reich tedesco sino alla fine della Grande guerra. Ma la politica di Cavour e il consenso del re dettero al Piemonte e successivamente all’Italia uno stile parlamentare ispirato dal modello inglese; e il Primo ministro, da allora, fu l’uomo che aveva maggiori possibilità di riunire intorno a sé la maggioranza della Camera.
Vittorio Emanuele volle essere secondo, non primo, come sarebbe stato meglio dopo la nascita del nuovo Stato. Ma accettò i plebisciti e riconobbe così implicitamente il principio della volontà popolare. So che i plebisciti risorgimentali godono da qualche tempo di pessima fama e vengono spesso considerati ingannevoli messinscene.
Confermarono tuttavia che il sovrano, da allora, non avrebbe regnato soltanto per grazia di Dio, ma anche per volontà della nazione.
E conviene ricordare infine che lo stesso Vittorio Emanuele II, salito al trono dopo la sconfitta di Novara, non volle firmare la pace con gli austriaci prima di avere ottenuto l’amnistia per i patrioti lombardi accusati di sedizione e tradimento. Conosciamo gli errori dei Savoia, ma non è giusto lasciare che gli errori, nella percezione generale, cancellino i meriti.
Non è così che si scrive la storia.

Tratto da : www.corriere.it/

martedì 31 maggio 2011

L’Italia è unita, soprattutto dai vizi

L’Italia è unita,
soprattutto dai vizi

La patria sotto accusa, dai pamphlet di Del Boca e Aprile all’ironia di Luca Sofri.
Rondolino dice che non siamo una nazione ma dimostra l’opposto.

di Aldo Cazzullo
11 maggio 2011

Accade raramente di leggere un saggio ben scritto e ben argomentato, goderselo sino all’ultima pagina, e alla fine dissentire del tutto dalla tesi, sintetizzata dal titolo: L’Italia non esiste. Eppure è quanto si prova di fronte al libro di Fabrizio Rondolino, che Mondadori manda oggi in libreria (pp. 264, € 17,50).

Non esiste la bandiera, non esiste l’inno, non esiste la politica, non esistono le classi dirigenti, non esiste la sinistra, non esiste lo Stato. E non esiste neppure la nazione. «L’Italia è un’espressione geografica », come la definiva sprezzante Klemens von Metternich. «È una graziosa penisola purtroppo in gran parte rovinata dagli italiani», compresi, par di capire, Brunelleschi e Piacentini, Leon Battista Alberti e Borromini. Va da sé che l’unità d’Italia sia «la più grande catastrofe abbattutasi sulla nostra penisola ». Ma «chiunque sia stato una volta nella vita a Cosenza e a Varese - o in qualsiasi altra coppia di città distanti almeno trecento chilometri tra loro - sa benissimo che l’Italia non esiste». Poi però, dopo l’invettiva iniziale, comincia il libro. Che dimostra in realtà come l’Italia esista eccome, e sia più unita e unificata che mai, sia pure dai vizi piuttosto che dalle virtù.


Rondolino rilegge tutti gli scrittori civili che hanno denunciato la mancanza di virtù civica e politica degli italiani: Dante e Leopardi, D’Azeglio e Prezzolini; Machiavelli, ancora animato da una visione alta della politica, più che Guicciardini, ormai rassegnato all’impossibilità di «cambiare le condizioni del tempo». Depreca lo spirito anti italiano con cui gli intellettuali di ogni secolo hanno vituperato il loro Paese, a cominciare dai torinesi di nascita o di formazione, Gobetti e Gramsci. Ma poi si unisce lui stesso al novero, demolendo le corporazioni, le élites, la Controriforma, i gesuiti, il Risorgimento, la famiglia, la mamma, la Chiesa, la Madonna, insomma tutto quanto concorre a definire l’identità italiana, dai valori agli eventi negativi, compresi il fascismo - «da noi non fu seria neppure la dittatura » - e la mafia, definita «il grande contributo degli italiani alla storia delle organizzazioni sociali». Rondolino è talmente posseduto dalla sua polemica, condotta in modo colto, elegante e divertente nell’amarezza, da non rendersi conto di stare tracciando il ritratto di un Paese più unito, uniforme, omogeneo che mai. L’Italia forse non esiste sul piano dell’efficienza dello Stato e della fiducia nella politica come leva per trasformare la società, riformare l’esistente, cambiare le cose (ma in quale Paese, dopo il fallimento dell’ingegneria sociale di Lionel Jospin e il brusco ridimensionamento di Barack Obama, sopravvive una tale concezione della politica?).

Certo però l’Italia esiste sul piano del costume, delle abitudini, del modo di vivere. L’influenza della Chiesa, la volgarità della televisione, la sconfitta storica del Piemonte sabaudo a vantaggio dell’Italia mediterranea, l’eclisse dei liberali e la spocchia della sinistra: Rondolino ha ragione su tutta la linea. Ma ciò non toglie che questo impasto di bellezza e di vizio sia oggi più amalgamato che mai. Che siano esistiti italiani di frontiera, da Cavour a De Gasperi, i quali alla guida delle loro generazioni - le generazioni del Risorgimento e della Resistenza, nelle varie forme che la Resistenza assunse - seppero unire e riscattare il Paese. E che oggi, come si è visto il 17 marzo, gli italiani siano più legati all’Italia di quanto noi tutti, Rondolino compreso, amiamo riconoscere. Eppure la vena anti italiana è stata di gran lunga dominante in questo 150˚compleanno. Terroni di Pino Aprile ha germinato una replica nordista, identica fin dalla forma grafica, Polentoni di Lorenzo Del Boca. Contro il Risorgimento si sono espressi Giordano Bruno Guerri e il cardinale Biffi, un giornalista di sinistra come Giovanni Fasanella e uno di destra come Gigi Di Fiore, neoborbonici per cui il Risorgimento fu di troppo e neomazziniani per cui il Risorgimento non fu abbastanza (è la logica del Noi credevamo di Martone e del romanzo di De Cataldo, I traditori, annunciato nella quarta di copertina come «il lato oscuro del Risorgimento»).

Anche il saggio di Luca Sofri (appena pubblicato da Bur, pp. 188, € 10) ha un titolo - Un grande Paese - solo in apparenza consolatorio. In realtà, sostiene Sofri, «un grande Paese è la definizione che vorremmo poter dare dell’Italia, senza che ci scappi da ridere». Però, a differenza di Rondolino, che ritiene l’Italia immodificabile e chiude il suo libro raffigurandola apocalitticamente come un Titanic che giace da un pezzo sul fondo dell’oceano gelato, Sofri si pone il problema di come sarà il nostro Paese tra vent’anni, e di chi lo cambierà.

Lavora quindi sulle riflessioni della contemporaneità: Michele Serra, Goffredo Fofi, Antonio Polito, Alessandro Baricco. E giunge alla conclusione che l’individualismo italiano non è senza riscatto, che «pensare a un Noi non implica inevitabilmente una vocazione minoritaria. Sono le dimensioni di quel Noi a dire se la vocazione è minoritaria o maggioritaria, e soprattutto le dimensioni che a quel Noi vogliamo dare»: solidarietà, amore per il prossimo, vicinanza agli oppressi, fiducia nella possibilità di una politica diversa. Al punto che il libro, molto critico sull’Italia di oggi, si chiude con un ideale discorso di un presidente del Consiglio nel 2031, che pare davvero l’Obama italiano: «Possiamo farcela. E lo faremo ».

Tratto da : www.corriere.it/

martedì 10 maggio 2011

Lettera a "Il Biellese" - Milano 1898

Biella, 09.05.2011

Gentile Direttore,
Torno a scrivervi una seconda volta in pochi giorni, prendendo spunto anche in questo caso dalla vostra rubrica storica pubblicata in occasione del 150° Anniversario della Proclamazione del Regno d’Italia, per manifestare il mio disagio (questa volta) nel leggere l’ultimo articoletto pubblicato venerdì 6 maggio, riguardante la rivolta a Milano del 1898.
Dispiace constatare infatti, che la Biblioteca Civica di Biella, invece di pubblicare o rendere accessibili dei documenti, abbia inteso argomentare dei banali quanto sfruttati luoghi comuni per ricordare un capitolo importante della nostra Storia unitaria.
Senza entrare nel merito della vicenda in se, per il quale non basterebbero molte pagine del vostro giornale per fare un poco di luce, desidero ricordare alla nostra Biblioteca Civica, che in Italia, nel 1898, vigeva un sistema parlamentare democratico, dove è vero che il Re regnava, ma a governare ci pensava un Governo che esercitava i suoi poteri in un Parlamento regolarmente eletto. Ciò comporta che, quando scriviamo, che il Generale Bava Beccarsi, sedò la rivolta per “ordine del Re”, commettiamo un grossolano errore. Trattandosi di una Biblioteca, ci sentiamo di escludere che l’errore sia dovuto a ignoranza, mentre siamo propensi ad immaginare che lo stesso errore sia stato valutato verosimilmente come più “politicamente corretto”!


Non riuscendo a comprendere come si possano concepire simili trasfigurazioni storiche, mi limiterò a proporre dei paragoni perché i lettori più attenti, possano su questo argomento, giungere ad un’opinione autonoma, citando alcuni casi più recenti :

-          Quando ricordiamo i fatti di Genova del 1960, riteniamo colpevole delle brutalità commesse in quell’occasione (1 morto 150 feriti e più di 50 arresti) il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi o il Governo Tambroni?
-          Per la rivolta calabrese del 1971, in qui morirono 5 persone e vi furono oltre 700 feriti in furiosi scontri con le forze dell’ordine, abbiamo forse considerato responsabile il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat?
-          Azeglio Ciampi è forse considerato l’aguzzino dei fatti del G8 di Genova del 2001?

Ho forse motivo di pensare che in questo Paese democratico sia normale accomodare la storia per indirizzare le opinioni e le libertà dei cittadini, utilizzando due pesi e due misure?

Distinti Saluti
Alberto Conterio
Alleanza Monarchica - Stella e Corona

mercoledì 4 maggio 2011

Lettera a "Il Biellese" - Ebrei e Risorgimento

Desideravo complimentarmi con “Il Biellese” in quanto, in occasione del 150° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, la proposizione di una piccola rubrica settimanale dispensatrice di utilissime perle di storia nazionale è davvero una bella iniziativa.
Qualche volta gli argomenti proposti esulano forse il periodo in commemorazione, proponendo fatti e personaggi posteriori, ma resta comunque un “appuntamento” valido che leggo con piacere ad ogni numero.
Per valorizzare ciò, è mio desiderio poter completare per correttezza storica, l’ultimo articoletto a cura della Biblioteca Civica di Biella pubblicato martedì 3 maggio 2011.
L’argomento ebrei e Risorgimento ultimo trattato infatti, per la sua importanza, merita secondo il mio parere d’essere completato.


Confermo certamente la partecipazione della comunità ebraica al fenomeno risorgimentale, anzi per correttezza occorrerebbe valutarla maggiormente in funzione del loro esiguo numero in rapporto a quanto fatto soprattutto finanziariamente, ma è altresì importante ricordare oggi, che ciò, fu reso pienamente possibile solo e soltanto dall’operato di Carlo Alberto di Savoia, Re di Sardegna, che completando il quadro delle concessioni religiose rese a tutti gli acattolici del suo Regno, volle, dal campo di Voghera - già in guerra contro l’Austria - il 29 marzo 1848, firmare il Decreto col quale concedeva tutti i diritti agli ebrei come già fatto in data 17 febbraio di quello stesso anno in favore della comunità valdese.
Quest’atto epocale - uno dei primi in Europa e primo in Italia con Legge di Stato - permise agli ebrei di valorizzare le proprie capacità in ogni settore della vita sociale, civile e militare. Cavour ad esempio - il Conte Camillo Benso - volle testimoniare con i fatti questa “apertura”, scegliendo d’essere affiancato da allora da un segretario personale ebreo.
Quando, falliti ovunque i moti rivoluzionari del ‘48, tutti i Governi pre-unitari, revocarono quanto erano stati costretti a concedere, adottando pesanti sistemi di repressione, solo in Piemonte, Casa Savoia ben rappresentata da Vittorio Emanuele II, mantenne puntigliosamente le concessioni date, permettendo che l’emancipazione degli ebrei proseguisse sicura negli anni dell’unificazione, mano a mano che le province italiane venivano a trovarsi “garantite” dall’estensione della carta costituzionale Albertina (Statuto Albertino).
A testimonianza dell’importanza di questo “passaggio” storico, che non può oggi essere taciuto, resta la gratitudine espressa al tempo dai “sudditi Sardi” di religione ebraica della comunità di Torino - quella maggiormente rappresentativa - che venuti a conoscenza della morte in esilio di Re Carlo Alberto nel 1849, vollero in segno di lutto ricordarlo, laccando di nero un armadio della Sinagoga di Torino.

Alberto Conterio
Alleanza Monarchica - Stella e Corona